“Quella
sera di dicembre del 1981 le truppe d’elite salvadoregne del battaglione
Atlacatl si trovano impegnate in manovre di contro insurrezione nella provincia
di Morazàn, di cui il villaggio di El Mozote fa parte; ufficialmente la mira
era di stanare alcuni membri del FMNL dai loro covi montani. Rufina Amaya era
nella sua casa, con i suoi figli, molti altri stavano tornando dalla chiesetta
edificata su un lato del piazzale al centro di quello sperduto borgo contadino,
faceva freddo. L’irruzione dei soldati fu improvvisa: “Dapprima i militari ci
tennero tutti distesi a pancia in giù, poi le donne furono portate in due case
diverse, quella di Marques e quella di Benita Dias; gli uomini furono portati
in chiesa, e così ci fecero passare la notte”, inizia questa donna che proprio
non ha nulla nell’apparenza che possa tornarmi utile per descriverla. E’
ordinaria, lunghi capelli ancora neri raccolti in una coda di cavallo, volto
tondeggiante, bassa, sovrappeso, occhi che esprimono nulla. Ed è questo che
colpisce: gli occhi di chi ha vissuto l’inimmaginabile forse sono sempre così,
uccisi da ciò che hanno visto.
Rufina
continua, la voce in una sorta di cantilena: “La mattina seguente arrivò un
elicottero e cominciarono a torturare gli uomini. Poi a mezzogiorno cominciarono
con le donne e lì iniziò la strage.”
Dapprima i soldati fecero fuoco all’impazzata su qualsiasi cosa si
muovesse, e infatti ancora oggi quella parte di El Mozote è rimasta così,
congelata nel tempo, con i muri crivellati di proiettili, le rovine delle
abitazione bruciate, persino gli oggetti di casa ancora sparsi, derelitti e
arrugginiti, nelle aie abbandonate; un luogo plumbeo, morto anch’esso e che
nessuno da allora ha mai più voluto riabitare. Poi tacquero le mitraglie e fu
la volta dell’orgia di violenza all’arma bianca. Rufina: “Io avevo i miei tre
figli intorno, tra cui una bimba che ancora allattavo, me li strapparono, così
come fecero con le altre madri, e li portarono tutti nella chiesa. Io li
sentivo urlare… ‘mamma, mammina aiutaci, ci stanno uccidendo con i coltelli…’”.
Furono
sgozzati tutti, quattrocento bambini sgozzati dentro una chiesa. I filmati del
ritrovamento dei corpi mesi dopo, che ho ottenuto, mostrano i volontari in
guanti di lattice e mascherine sollevare dal terreno minuscole vesti, magliette
e calzini come fossero rigidi cartoni incrostati di nero, il sangue rappreso, e
lascio ai lettori immaginare cosa mostravano le fotografie del pavimento della
chiesa scattate dai primi testimoni giunti sul luogo. Fra loro Santiago Consalvi,
un giornalista oppositore del regime, che commentando quelle scene una sera a
cena con me e con sua moglie ha solo sussurrato “Dantesche…”, senza aggiungere
altro.
Rufina
Amaya a quel punto si trova ultima nella fila delle donne inginocchiate che vengono
uccise una a una con colpi alla nuca o semplicemente accoltellate. Intorno a
lei cadaveri, grida, esplosioni, il fuoco della case cosparse di kerosene,
animali domestici che galoppano col pelo in fiamme, il terrore che non si può
immaginare.
“Ancora
potevo udire le grida di qualche bambino, forse i miei bambini, ma che potevo
fare? Pregavo Dio che mi perdonasse, o che mi salvasse, pregavo e piangevo. Poi
vidi dietro di me del bestiame misto ai cani, raggruppati fra le piante lungo
quel sentiero lì” e me lo indica, una stradina che costeggia un rudere
delimitata da una vegetazione cespugliosa, caotica e assai alta, “e approfittai
del buio per nascondermici arrancando a gattoni. Rimasi laggiù non so per
quanto, ma i singhiozzi che mi uscivano erano troppo acuti, mi avrebbero
sentita prima o poi, e allora scavai con le mani un buco nella terra, vi ficcai
la testa, e iniziai a urlare.”
Quando
molte ore dopo Rufina Amaya tentò di uscire dai cespugli fu immediatamente
vista. Le spararono addosso, ma lei si gettò di nuovo nel verde e iniziò a
correre nel fitto della boscaglia. Per sei giorni rimase a vagare come un
animale, poi fu raccolta da una contadina che viveva con i figli in una grotta
in condizioni poco migliori delle sue, ma le salvò la vita.
Al
termine di quarantotto ore di orgia di violenza, i terroristi del battaglione
Atlacatl sterminarono ottocento abitanti di El Mozote, e cioè tutti meno
Rufina, e altri quattrocento nei dintorni. Mille e duecento vittime civili,
contadini, donne e bambini, neppure un guerrigliero fra loro.
La
donna che mi ha raccontato tutto questo ora si alza e mi fa cenno di seguirla.
Poco distante si ferma e punta il dito contro un portone che ancora è retto da
un muro bruciato e in cima al quale qualcuno inchiodò un asse di legno con una
scritta, anzi, una firma. Armando (il mio interprete e autista) traduce quelle
parole che furono evidentemente scarabocchiate con un pezzo di carbone: “Qui è
stato il battaglione Atlacatl, il padre dei sovversivi, seconda compagnia.
Avete fatto una cagata, figli di puttana. Se avete bisogno di palle chiedetele
per corrispondenza al battaglione Atlacatl. Gli angioletti dell’inferno.”
Ebbene,
i terroristi delle truppe d’elite Atlacatl, gli psicopatici capaci di fare
questo a 400 bambini e a 800 civili inermi, ebbero un sostegno diretto,
ripetuto e consapevole proprio dalla nazione che oggi si è posta alla guida
della Guerra al Terrorismo, gli Stati Uniti d’America. Le prove di ciò sono
schiacciati, nero su bianco ed è un misto di perseveranza e fortuna che pochi
giorni dopo il mio incontro con Rufina Amaya io me le ritrovi fra le mani.
In
compagnia di Armando mi ero ficcato negli archivi sotterranei dell’Università
Cattolica di San Salvador, dove una giovane e distratta responsabile aveva
ascoltato la mia richiesta di saperne di più su El Mozote e senza spostarsi di
un passo dal ventilatore che la rinfrescava mi aveva solo indicato una stanza a
destra in fondo al corridoio, bofonchiando “là ci sono pile di carte lasciate
da un ex professore che non so dove sia finito. Nessuno le ha mai più toccate”.
Ci troviamo in uno stanzino di due metri per quattro, con una scrivania di
metallo spoglia, due sedie e sei pile di scatoloni grigi che in realtà erano
neri ma la pasta di polvere che li ricopre gli ha cambiato colore. Mani che
diventano subito carboni, caldo soffocante, decine di pacchetti di fazzolettini
di carta usati per poter toccare i fogli senza lordarli, acqua, tanta. Ma
all’apertura del quarto scatolone arriva la sorpresa. Dopo aver scartabellato
articoli e altra roba di nessun interesse, mi ritrovo fra le mani qualcosa di
familiare: i fogli fotocopiati con le classiche rigone nere che cancellano nomi
riservati, con il timbro “Classified” e la firma del funzionario responsabile,
con “fm Embassy to Secstate in Washington D.C.”, oppure ancora “Confidential,
Action Copy Telegram, Top Secret”, insomma documenti di Stato americani presi
direttamente dagli archivi dei Servizi presso l’Ambasciata USA in Salvador e di
cui quel professore era venuto in possesso chissà come.
Il
problema, che stempera subito il mio entusiasmo, è che sono migliaia, senza un
ordine di date e soprattutto trattano di argomenti di una noia mortale,
pedissequamente riportati dagli agenti americani per riferire, per esempio, di quell’articoletto
apparso sul tal periodico salvadoregno e che parlava del tal funzionario, di
quell’incontro fra il tal businessman e quell’oscuro burocrate di ministero,
dell’opinione dall’addetto alla propaganda dell’ambasciata sulla maggiore o
minore simpatia espressa dal New York Times per le politiche americane in
Salvador o in Honduras.
Io
e Armando ci passiamo due pomeriggi e una mattinata senza cavarci alcunché di
interessante, e l’unica cosa che mi sorregge è vedere l’entusiasmo di questo
meccanico che sta ritrovando un acceso e commovente patriottismo nello sdegno
che lo va man mano assalendo mentre, nel seguirmi lungo la mia ricerca in
Salvador, è ritornato in contatto con il passato di orrori politici che ha
terrorizzato la sua gente per decenni. Lui era solo un ragazzino all’epoca, ma
ora mi racconta di come ogni mattina quando si recava al lavoro usava tenere la
testa bassa e gli occhi puntati sulla punta delle sue scarpe per non vedere i
cinque o dieci cadaveri abbandonati che sempre punteggiavano il percorso da
casa all’officina, e che corrispondevano ad altrettante raffiche di mitra udite
nella notte. Corpi magari nudi e mutilati dalla tortura, con i testicoli
carbonizzati, con fori da trapano nelle braccia o con i solchi dell’acido
versato fra le natiche. Armando dice il vero, le foto di quelle atrocità
riempiono gli archivi del Rehabilitation Center For Torture Victims di
Copenaghen , della Medical Foundation di Londra o di Amnesty International. E
non di rado erano giovani donne, cui veniva mozzata la lingua perché le loro
grida non demotivassero gli uomini e i cani che le violentavano prima di
torturale. Così finivano gli oppositori dei regimi latinoamericani, dal
Salvador al Cile, dall’Argentina al Paraguay, ridotti in quel modo da chi “dedicò
il suo lavoro alla causa del progresso e della pace..”, e cioè dai Dan Mitrione
dell’America nemica giurata dei terroristi, e dai loro allievi aguzzini.
Alla
sera del terzo giorno la fortuna ci bacia in fronte. Il nome Morazàn compare
per primo in un memorandum Top Secret, poi El Mozote e tutta la storia. E con
essi la prova che gli Stati Uniti non solo finanziarono e addestrarono il
battaglione Atlacatl, ma seppero del terrore di cui erano capaci, tentarono di
negarlo e continuarono imperterriti ad armarli e a proteggerli.
Nel
memorandum segreto che il sottosegretario alla Difesa Carl W. Ford spediva
nell’aprile del 1990 in risposta alle interrogazioni all’Onorevole John Joseph
Moakley in Campidoglio si legge: “..Il battaglione Atlacatl fu in effetti
addestrato dai militari degli Stati Uniti nel 1981. Furono addestrati un totale
di 1383 soldati. L'addestramento fu condotto nel Salvador.”
Ricordo
che l’eccidio di cui fu testimone Rufina Amaya era avvenuto nel dicembre di
quell’anno.
La
strage di El Mozote fu resa nota al Dipartimento di Stato a Washington nel giro
di pochi mesi, ma nonostante ciò l’appoggio americano ai terroristi
dell’Atlacatl non cesserà e durerà per altri 8 anni, fino al 1989 quando lo
stesso battaglione firmerà un’altra strage, quella dei 6 intellettuali gesuiti
e delle due perpetue, massacrati nei locali dell’Università Cattolica nel
centro della capitale. Su quel periodo il memorandum di Ford infatti dichiara:
“All’interno della valutazione del distaccamento, abbiamo addestrato 150
soldati del battaglione Atlacatl. L’addestramento fu interrotto il 13 novembre
del 1989.”
Il
cinismo e la menzogna che seguirono, e in cui il governo americano e la giunta
salvadoregna fecero a gara per distinguersi, sono testimoniati da un altro
documento riservato che un diplomatico americano in Salvador spediva al
Dipartimento di Stato nel febbraio 1982. Vi si legge dei tentativi
dell’ambasciata statunitense di verificare le voci insistenti che parlavano di
una immane strage a El Mozote, e il diplomatico mostra tutta la sua abilità
nell’esser riuscito a fare domande scomode ai vertici militari di quel Paese
pur rassicurandoli appieno sul continuo appoggio americano. Infatti, egli
informa i suoi superiori a Washington di aver notificato al Generale Garcia
(l’allora ministro della difesa salvadoregno, nda) che “Tom Enders ha difeso di
fronte al Congresso lo stanziamento di altri 55 milioni di dollari in armamenti
al Salvador” e poi sempre riferendosi a Garcia aggiunge: “Mi ha detto che la
storia di Morazàn e di El Mozote è una favoletta, è pura proaganda marxista
senza fondamento. Gli ho risposto che è chiaramente propaganda, sapientemente
costruita... E come zuccherino finale, gli ho ricordato che il Washington Post
sostiene le nostre politiche comuni.”
Questi
documenti provano per la prima volta l’appoggio americano ai terroristi di El
Mozote. Tuttavia l’idea, incessantemente ribadita da fonti statunitensi, che il
terrorismo neo-nazista delle dittature latinoamericane fosse inventato da una
“propaganda marxista sapientemente costruita“ fu l’ostacolo principale che
Rufina Amaya incontrò, anni dopo, quando trovò abbastanza forza per raccontare
ciò che aveva vissuto. Prima di lasciarla davanti alla porta della sua casa di
mattoni grezzi, le avevo chiesto che ragione si era fatta di quel massacro e
cosa pensasse del coinvolgimento americano, alla luce del fatto che proprio
quel Paese si era poi posto alla guida di un Guerra al Terrorismo. “L’esercito
venne qui per un solo motivo” mi rispose
sicura, “ed era di creare terrore. Il terrore non serviva per colpire la
guerriglia, serviva a evitare che noi contadini ci organizzassimo. Ma il
massacro degli innocenti, qui, ottenne il risultato opposto”. Rufina sembrò non
voler rispondre alla seconda parte della mia domanda, e gliela ripetei. Si girò verso di me e
guardando in basso aggiunse: “Sì, potrei chiamarli terroristi, perché vengono
nei nostri Paesi con il loro potere grande e fanno queste cose e le fanno in
tutto il mondo. Ma per me sono semplicemente degli assassini.”
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In
memoria di Rufina, in memoria della smemoratezza di tutti noi, che mai abbiamo
eretto alle vittime del nostro benessere alcun monumento. Che Dio, se c’è, ci
perdoni.
Paolo
Barnard