In
questi giorni di campagna elettorale siano sommersi da un diluvio di proposte,
preoccupazioni, auspici, progetti, riforme tutte incentrate sulla parola
magica: ”lavoro”.
Ne
parla il Cavaliere d’ Arcore, ne parlano Monti, Bersani, sindacati,
imprenditori e chi più ne ha più ne metta!
Se
poi allarghiamo lo sguardo al mondo intero ci accorgiamo che il leit-motiv è
quasi uguale dappertutto: lavoro, lavoro, lavoro!
Lavoro
si, ma quale. Quello che manca e che non ci sarà più, quello globalizzato al
minor costo possibile, quello inventato, quello precario, quello sfruttato?
Credo
che questa crisi sistemica offra tra tanti guai e problemi un’occasione unica
per rivedere l’intero assetto societario a partire proprio dalla considerazione
che si deve avere nei confronto del lavoro e conseguentemente dei lavoratori.
Non dimentichiamo che, dietro cifre e statistiche ci sono persone, esseri umani
(in Italia nel 2012 circa tre milioni di disoccupati).
Tutte
le ricette che vengono proposte si muovono tutte all’interno dello stesso
paradigma capitalistico, quello cioè che considera il lavoro e i lavoratori
come una delle tante voci del bilancio, soprattutto nella sua ultima e più
cinica versione di capitalismo globalizzato, liberista e finanziario, e quindi
l’eventuale soluzione la ricercano all’interno di una sostenibilità puramente
economica anzichè in una sostenibilità sociale e ambientale tesa a un miglioramento
del benessere collettivo e globale. Impossibile secondo loro ,possibilissimo,
invece, se si adottano punti di vista diversi.
All’inizio
della società capitalista nata dalla rivoluzione industriale del 18° secolo,
venivano considerati quasi naturali i privilegi del “padrone” che andavano ad
affiancarsi ai privilegi già esistenti
dei nobili dell’epoca, spesso sovrapponendosi. Si giustificava tale condizione
con l’argomentata convinzione che l’arricchimento dei pochi favorisse anche i
più disagiati, in quanto parte della ricchezza sarebbe stata reinvestita in attività produttive creando
ulteriore benessere. Teoria destinata a rimanere uneca se, nella metà dell’ottocento
non facessero irruzione nello stagnante pensiero dominante le teorie marxiste e
socialiste che immettevano nel dibattito concetti come giustizia, libertà e
riconoscimento, anche economico, di quelli che fino ad allora erano considerati
poco più che schiavi.
Sull’onda
delle potenti pressioni e lotte della classe operaia, spesso soffocate nel
sangue, sotto forma di moti, rivoluzioni , ben due guerre mondiali fino ad
arrivare alla contestazione globale degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, i
lavoratori conquistarono uno status sociale più dignitoso anche se ancora non
liberati del tutto dalla schiavitù del bisogno, non più, però, così estremo.
Arriviamo,
così, ai giorni nostri, cioè agli ultimi 30 anni in cui, grazie al progresso
delle tecnologie e degli strumenti di
comunicazione di massa, con cui si sono imboniti interi popoli, il
capitalismo ha ripresentato il suo volto più arcigno e becero (che solo gli
ingenui e quelli in malafede potevano considerare superato), inventando nuove
forme di ricatto sociale come la globalizzazione, e presentandola come se fosse
un qualcosa caduto dal cielo e non una precisa strategia per l’abbattimento dei
costi, per una maggiore ricattabilità dei lavoratori e per i maggiori profitti.
Si
andava a schiavizzare popoli fino ad allora ai margini dello sviluppo, così
come concepito nell’occidente, lasciando dappertutto disastri, sia dal punto di
vista sociale che ambientale. Accanto a questo, un nuovo tipo di capitalismo
(sempre presente ma meno visibile) prendeva forma in maniera aggressiva e
brutale, quello finanziario che, grazie alla complicità o incapacità delle
classi politiche, in pochi anni diventa padrone del mondo relegando in secondo
piano le problematiche sociali mettendo al centro del dibattito la finanza e le sue voraci e insaziabili esigenze.
Oggi
il debito pubblico mondiale ammonta a circa sei trilioni di dollari, cioè più
di tutti i bilanci di tutti i paesi messi insieme. Solo questo basterebbe a far
riflettere sull’insostenibilità di questo sistema e a capire che, muoversi
all’interno di questo recinto, non può, ragionevolmente, portare da nessuna
parte, se non in un generale e drammatico impoverimento collettivo.
Si
dirà: ma il capitalismo tra le tante storture qualcosa di buono l’ha fatto, ad
esempio la democrazia.
Bene,
non sarò io a confutare il valore della democrazia, a patto che democrazia
voglia dire rappresentanza e difesa di tutti e non solo esercizio sterile e
spesso inutile del voto, soprattutto se a presentarsi alla guida dei paesi sono
forze che rappresentano interessi economici distinti, ma tutti all’interno
dello stesso sistema, per cui spesso si viene chiamati a votare “contro” e non
“per”. Prova ne siano le grandi cifre dell’astensionismo soprattutto in quei
paesi, come si ama definirli, a democrazia avanzata.
Quando
la democrazia era meno avanzata ma più vicina alle persone i lavoratori erano
sicuramente più rappresentati. Oggi invece se ne invoca il voto (in-utile)
sapendo già che, chiunque vinca, non sarà in grado, aldilà delle promesse e
delle chimere elettorali, di fare alcunchè per cambiare la drammatica
situazione.
E
anche stavolta sarà presumibilmente così, poco più della maggioranza andrà ad
esprimere un voto che, comunque vada, non cambierà le cose per i lavoratori e
per chiunque sia alla disperata ricerca di una fonte di sostentamento economico.
Bene che vada gli unici a coronare questo sogno saranno i nuovi eletti che
potranno dire di avercela fatta, visto che, oggi, fare politica vuol dire, troppo
spesso, risolvere i propri problemi aggravando o infischiandosi di quelli drammatici dei propri elettori.
Le
poche forze che propongono qualcosa di nuovo (in Italia Movimento 5 stelle e
Rivoluzione Civile) vengono tenute ai margini dei dibattiti e dell’informazione
con il risultato di essere considerati movimenti folkloristici o sorpassati!
Ma
temi come la politica ambientale, la redistribuzione della ricchezza (che c’è
se la depuriamo delle false tigri di carta del debito pubblico e dei lacciuoli
burocratici imposti dal potere finanziario), lo sviluppo sostenibile dei paesi
del terzo mondo, finora legato esclusivamente allo scimmiottamento dello sviluppo
economico occidentale, sono temi non più eludibili da parte di nessuno, tantomeno da parte di chi si candida alla guida del paese.
Cominciare
a considerare il lavoro un dovere ma anche e soprattutto un diritto che sia
teso al benessere e al soddisfacimento collettivo
e personale.
In
cui il merito e le capacità non siano svilite da pratiche clientelari e di
nepotismo, in cui invece che inseguire grandi opere per gli appetiti dei grandi
speculatori a scapito dell’ambiente e delle persone private dei loro diritti ,
si facciano le mille opere necessarie per il bene comune, si incentivi e
sviluppi la ricerca (in tutti i campi), si liberino le risorse finora impegnate
nel mantenimento degli eserciti, utili solo ad un equilibrio
basato sulla paura reciproca (il Costarica da 60 anni ha abolito le forze
armate ed è il paese più pacifico in una regione in cui gli eserciti degli altri
paesi hanno instaurato spesso regimi violenti e dittatoriali appoggiati e
foraggiati dall’America).
Nell’immediato
cominciare a svincolarsi dal cappio imposto dall’Europa delle banche,
rinegoziando i patti colpevolmente e frettolosamente presi (MES), recuperare,
almeno in parte, l’autonomia monetaria (In Europa i paesi che resistono meglio
alla crisi sono quelli fuori dall’euro come la G.Bretagna e i paesi Scandinavi).
Per fare questo nell’immediato non c’è bisogno di rivoluzioni o sommosse, c’è bisogno
di scelte coraggiose, e per farle non c’è bisogno di eroi. Le scelte dell’Islanda,
dell’Argentina, dell’Equador, della Bolivia, del Venezuela stanno lì a
dimostrare che si può fare, basta volerlo.
Il
lavoro non può e non deve essere più una chimera per chi non l’ha, e non può e
non deve più essere una dannazione e un incubo per chi ce l’ha!
Non
si può essere poveri lavorando e non si può essere disperati se non si lavora.
Lavorare meno lavorare tutti ma, soprattutto lavorare meglio! Più che un
obiettivo una necessità!
MIZIO
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