D’estate,
mi ritiro sulle montagne e sulle coste del Maine e del New Hampshire per
liberarmi dall’ingerenza del mondo industrializzato. In queste foreste e lungo
la costa frastagliata dell’Atlantico, col fragore assordante delle onde che
s’infrangono sugli scogli, mi rendo conto della caducità della vita umana,
semplicemente insignificante dinanzi all’universo. Sopra di me, le stelle si
stagliano a migliaia sulla volta celeste, schernendo la mania di grandezza
dell’uomo.
Ci
sussurrano il monito biblico, ricordandoci che polvere noi siamo e polvere
torneremo. Amate adesso, ci dicono con insistenza, proteggete ciò che è sacro
finché ne avete il tempo. Tuttavia, mi reco in questi luoghi anche per
piangere. Piango per il nostro futuro, per l’agonizzante maestosità della
natura, per la follia della specie umana. Il pianeta sta morendo. E noi
moriremo con lui. Un giovane pastore conduce la propria capra oltre uno stagno
riarso nella periferia di Bhubaneswar, una città situata nell’India orientale.
(AP/Biswaranjan Rout)
Il
coreografico carnevale di Tampa, immerso in uno sfarzo da capogiro, e
l’imminente carnevale di Charlotte distolgono la nostra attenzione dal mondo
reale, quello che sta progressivamente collassando sotto i nostri piedi. Il
mortale assalto ecologico da parte dello stato impresa è mascherato
dall’ostentazione e dalla propaganda, dalle ossessioni ridicole impartiteci
dalle nostre allucinazioni elettroniche, nonché dallo spettacolo inscenato per
ostentare una falsa partecipazione politica. Più la situazione peggiora, più ci
rifugiamo nell’auto illusione. Convinciamo noi stessi che il riscaldamento
globale non esiste. O ne avalliamo l’esistenza, insistendo però sulla nostra
capacità di adattamento. Entrambe le risposte confermano la nostra mania di eterno
ottimismo e la nostra ricerca sconsiderata di benessere. Qui in America
evitiamo la realtà, quando questa è sgradevole. Ma la realtà si abbatterà su di
noi come le Erinni, mandando in frantumi la nostra noncuranza prima e le nostre
vite poi. Noi uomini, in quanto specie, siamo condannati. E, per un padre di
famiglia, questa è una realtà amara, amarissima da buttar giù.
Io
e la mia famiglia facciamo una camminata su una costa desolata, in un’isola del
Maine, accessibile soltanto via mare. Nei pomeriggi sostiamo in isolate
insenature, osservando l’oceano Atlantico o la costa e il profilo appena
visibile delle colline di Camden. Mio figlio ultimogenito getta dei sassolini
nella schiuma delle onde. Mia figlia, con passo incerto, si avventura sulle
pietre levigate della spiaggia, tenendosi alla mano della madre. Strillano
forte i gabbiani grigi e bianchi sopra le nostre teste. Il vento trasporta
l’odore del sale. La vita, la vita della mia famiglia, la vita attorno a me, è
inerme e allo stesso tempo fragile e sacra. E vale la pena di lottare per
salvarla. Ai tempi in cui ero ragazzo e mi recavo sulla costa con mio zio in
occasione di spedizioni di caccia all’anatra, vi era un’attività ittica vivace.
Il pescato delle flotte era variegato: eglefini, merluzzi, aringhe, naselli,
halibut, pesci spada, merluzzi neri e platesse. La zona non offre più un tale
assortimento alieutico, vittima della pesca commerciale in cui enormi
pescherecci spazzano via il fondale marino uccidendo coralli, briozoi,
siboglinidae e altre specie che fornivano nutrimento a nuovi banchi di pesci. I
pescherecci si lasciano alle spalle melma e detriti: un fondale sterile e
desolato. La situazione è la stessa in tutto il pianeta. Foreste rase al suolo.
Acqua contaminata. Aria satura di emissioni di carbonio. Suolo esaurito. Oceani
con livelli di acidità alle stelle. Aumento delle temperature atmosferiche. E
qualcuno, da qualche parte, guadagna delle scandalose somme di denaro da tutto
ciò. Le corporation, indifferenti a ciò che è sacro, considerano la morte del
pianeta come un’altra occasione d’investimento. Si precipitano per sfruttare i
territori incustoditi sottostanti le acque polari per accaparrarsi le ultime
tracce di petrolio, gas metano, minerali e pesce. E dato che le corporation
determinano il nostro rapporto nei confronti dell’ecosistema dal quale
dipendiamo per vivere, le probabilità che sopravviviamo sono sempre più
pessimistiche. L’ultima fase di cinquemila anni di attività umana stabile
termina con un’assurdità collettiva.
“Tutti
i miei mezzi sono sani,” dice il capitano Achab riferendosi alla caccia suicida
di Moby Dick, “il mio movente e il mio fine sono pazzi.” Il fondale oceanico al
largo della costa del Maine, nelle cui acque quest’estate si è registrato un
incredibile aumento delle temperature di cinque gradi, è adesso ricoperto di
crostacei, come granchi e astici, che non hanno più predatori. Per ragioni di
profitto, le riserve di pesce sono state esaurite. La monocoltura di crostacei
è fragile, come tutte le monocolture. Una fragilità sperimentata anche dai
coltivatori di mais del Midwest. Gli astici rappresentano l’ottanta per cento
del fatturato del mercato ittico del Maine. Ma per quanto tempo ancora
dureranno? Quando un ecosistema vario e bilanciato in maniera altamente complessa
viene spazzato via, che futuro ci si può aspettare? Dopo che si demolisce la
natura e se ne gettano i pezzi, cosa accade quando è disperatamente necessario
ricomporla? E anche se è possibile ricostituire le riserve di pesce decimate
dalle flotte commerciali, come stanno tentando di fare delle coraggiose
associazioni come il Penobscot East Resource Center, cosa succede se le
temperature delle acque e i livelli di acidità continuano ad aumentare a causa
del riscaldamento globale, condannando la maggior parte della flora e della
fauna sottomarine?
Quest’anno,
gli astici hanno fatto la muta sei settimane prima del solito a causa
dell’aumento della temperatura delle acque. Ciò che è accaduto nelle acque più
a sud sta accadendo adesso al largo delle coste del New England. Vent’anni fa,
le acque di Long Island Sound garantivano astici in abbondanza. Questi sono poi
scomparsi in seguito ad un aumento delle temperature, diventando preda di
infestazioni parassitarie e malattie della corazza. Gli astici sopravvissuti
sono migrati verso acque più fredde.
Tutte
le risorse naturali sono state sfruttate fino all’esaurimento: queste
diminuiranno per poi scomparire molto presto. La siccità sta colpendo le
foreste sia nel nord est che nel nord ovest. La moria invernale dello scarabeo
del pino di montagna e di altri parassiti, vitale per la salute delle foreste,
non si sta più verificando dato il costante riscaldamento globale. I
tradizionali alberi di legno duro delle foreste del nord e le conifere stanno
morendo. Li stanno rimpiazzando con foreste di querce e noci, condannando la
biodiversità e radendo al suolo l’habitat di una gran varietà di uccelli
canterini e di altra fauna selvatica, nonché decretando la chiusura dei
battenti dell’industria dello sciroppo d’acero. Una decina d’anni fa, lo
sciroppo d’acero veniva prodotto negli stati del Connecticut e del
Massachusetts. Da bambino mi addentravo nelle foreste con le racchette da neve
ai piedi per arrivare ai capanni degli agricoltori, dove vi erano tinozze di
sciroppo bollente. Versavamo lo sciroppo sul manto di neve proprio fuori dai
capanni per fare dei dolciumi invernali friabili. Tuttavia, la produzione negli
stati del New England meridionale è cessata, spostandosi verso il Maine
settentrionale e il Canada. Questi sono piccoli indicatori naturali che segnalano
che c’è qualcosa che sta andando storto.
Su
base giornaliera, i dati dello scioglimento del ghiaccio marino artico
monitorato nel corso di questa estate sono stati i più gravi mai registrati.
Dalla fine degli anni Settanta, quando cominciarono ad essere effettuati i
rilevamenti satellitari, la quantità di ghiaccio marino è diminuita del 40%.
Tra una decina o una ventina d’anni, i ghiacci marini estivi del mare Artico
potrebbero sparire del tutto. Con la scomparsa dei ghiacci estivi, il quadro
meteorologico del nostro pianeta sarà dominato da tempeste inspiegabilmente
violente e improvvise e da altre violente anomalie naturali. La siccità
devasterà alcune zone della Terra mentre altre saranno colpite da
precipitazioni incessanti. Sarà un mondo fatto di estremi. Uragani. Trombe
d’aria. Alluvioni. Regioni desertiche. Incendi e inondazioni.
I
nostri leader politici, sia democratici che repubblicani, sono corresponsabili
della fine dell’umanità. Il nostro sistema politico, simile a quello esistente
durante il declino dell’antica Roma, è un regime di corruzione legalizzata. Gli
uomini politici, Mitt Romney e Barack Obama compresi, servono agli scopi
dementi delle corporation che tenteranno di approfittare della spirale mortale
che ci inghiottisce fino all’ultimo barlume di vita. L’unica e sensata forma di
resistenza è la disobbedienza civile, compresa la recente decisione presa da
parte di alcuni attivisti di Greenpeace di incatenarsi ad un’imbarcazione
d’appoggio della Gazprom per impedire l’inizio delle operazioni di
trivellazione. Votare è inutile. Tuttavia, anche se sostengo tali eroici atti
di resistenza, temo sempre più che questi abbiano un minimo effetto. Questo non
significa che non dovremmo opporci. Resistere è un imperativo morale. Non
possiamo utilizzare la parola “speranza” senza reagire. Tuttavia, le
corporation faranno di tutto finché non avranno tratto profitto persino
dall’ultima goccia di vita. Non possiamo far altro che aspettarci un’ostilità
crescente da parte dello stato impresa. I suoi sistemi di sicurezza nazionali e
internazionali, dato che le conseguenze fatali dello sfruttamento frenetico
diventano più evidenti, cercheranno di tacere e stroncare qualsiasi forma di
dissidenza. Le corporation si disinteressano della democrazia, dello stato di
diritto, dei diritti umani o dell’inviolabilità della vita. Sono determinate ad
essere gli ultimi predatori sulla faccia della terra. E poi anche questi
verranno fatti fuori. L’arroganza smisurata non porta ad altro che all’auto
immolazione.
Chris
Hedges
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