Ora
l’inverno del nostro scontento
è
reso estate gloriosa da questo sole di York,
e
tutte le nuvole che incombevano minacciose sulla nostra casa
sono
sepolte nel petto profondo dell’oceano.
Ora
le nostre fonti sono cinte di ghirlande di vittoria,
le
nostre armi malconce appese come trofei,
le
nostre aspre sortite mutati in lieti incontri,
le
nostre marce tremende in misure deliziose di danza.
Riccardo
III
Arriverà
anche quel momento e bisognerà pensare a
cosa costruire sulle macerie.
Questi
dirittidoveri non abbisognano di spiegazioni e giustificazioni, sono intuizioni
morali spontanee il cui significato e cogenza possono sfuggire solo a persone
prive di empatia o introspezione. In un ipotetico consesso di civiltà della Via
Lattea esemplificherebbero l’ethos umano, sarebbero il nostro biglietto da
visita, qualcosa di cui essere orgogliosi.
Il
dirittodovere alla giustizia sociale ed all’equità
Nella
filosofia greca classica giustizia e senso della misura erano inestricabilmente
connessi. Archita elogiava la giusta misura, che neutralizza “l’avido desiderio
di avere sempre di più” (pleonexia). Eraclito, Anassimandro, Esiodo, Solone
convenivano sul fatto che il fondamento della moralità umana sia la misura e la
repressione dell’eccesso e che mutualità e giustizia sono le virtù che
producono l’uguaglianza.
La
giustizia non è semplice imparzialità o equità, presuppone uguaglianza nel
rispetto, trascende le norme di legge: sei un mio pari, ti tratterò di
conseguenza. La giustizia è qui intesa non come ideale ma come una prospettiva
sul mondo. Sono in una posizione di privilegio rispetto alla tua, ma è un
accidente, un caso del destino e quindi un mio eventuale senso di superiorità
sarebbe del tutto ingiustificato.
Non
c’è giustizia se manca il riconoscimento della comune umanità e il desiderio di
riparare ad un’ingiustizia occorsa ad un altro come se l’avessimo subita in
prima persona.
Per
questo la civiltà contemporanea sta affondando e dalle sue ceneri non dovrà nascere
una fenice, ossia un clone del presente, ma un mondo nuovo e diverso.
Tanto
per cominciare si dovrebbero adottare misure di seria e rigorosa
regolamentazione dei mercati, di tassazione delle transazioni finanziarie e di
contrasto al fenomeno dei paradisi fiscali.
Secondo
un rapporto realizzato da un ex capo economista di McKinsey, James Henry, sulla
base dei dati della Banca dei Regolamenti Internazionali e del Fondo Monetario
Internazionale, ed intitolato “Il prezzo dell’offshore rivisto”, fino al 2010 i
patrimoni dei super-ricchi di tutto il mondo nascosti nei paradisi fiscali
ammontano ad una cifra che potrebbe raggiungere i 32mila miliardi di dollari,
pari ad una volta e mezza la somma del PIL americano e giapponese. Le 10
maggiori banche hanno messo da parte un quinto del totale, nel 2010, quasi
triplicando il gruzzolo di 5 anni prima. Miracoli delle crisi globali. Le
mancate entrate derivanti da questa elusione fiscale sono enormi. La ricchezza
sottratta ai paesi in via di sviluppo (in primis alla Russia post-comunista)
negli ultimi 40 anni sarebbe più che sufficiente a coprire il loro
indebitamento con il resto del mondo, con effetti decisivi sui flussi
migratori. Il rapporto precisa che “il problema è che i beni di queste nazioni
sono controllati da un ristretto numero di persone mentre i governi
ridistribuiscono i debiti sui cittadini ordinari”. La somma calcolata è così
colossale da lasciar capire che la misura dell’ingiustizia sociale dei nostri
tempi è “drammaticamente sottostimata”. Quasi la metà di queste ricchezze è
posseduta da 92mila persone, ossia circa lo 0,001% della popolazione mondiale.
Finora i politici si sono ben guardati dal prendere l’iniziativa contro questa
vero e proprio crimine contro l’umanità. Del resto ben 68 parlamentari
britannici controllano o sono partner finanziari di imprese uffici, conti
correnti e sedi in vari paradisi fiscali (inchiesta del Guardian, 2012).
Anche
la Tobin Tax, la cosiddetta “tassa Robin Hood”, continuamente evocata, non è
mai stata approvata. Colpirebbe le compravendite borsistiche che, a differenza
di quelle ordinarie (merci, beni e servizi sono sottoposti all’IVA o ad altre
imposte), sono gratuite. Innumerevoli miliardi di dollari ed euro di fatturato
non tassato. Negli Stati Uniti erano tassate fino alla seconda metà degli anni
Sessanta, poi questa misura fu abolita dal successore di JFK, Lyndon Johnson.
Curiosamente, è proprio dagli anni Settanta che il divario tra i redditi
dell’1% e quelli del 99% della popolazione americana prima e occidentale poi ha
cominciato a crescere in modo molto sostenuto. Una tassa di un semplice 1%
risolverebbe la colossale crisi del debito sovrano americana.
Il
dirittodovere alla libertà ed all’autonomia
La
libertà è lo svincolamento da forze e circostanze che oggettificano l’umano,
che impongono ad una persona la passività e prevedibilità della materia grezza.
Gli oggetti hanno cause, i soggetti hanno motivazioni e ragioni complesse ed
anche contraddittorie.
La
libertà è la dimensione di apertura illimitata che consente all’essere umano di
trascendere la finitezza. È una condizione d’esistenza indispensabile allo
sviluppo della psiche e della coscienza. Essere libero, libero di essere onesto
con me stesso, di pensare senza dovermi chiedere ogni volta cosa gli altri
penseranno di me, di vivere pienamente ed abbondantemente.
Non
c’è umanità senza libertà di scegliere, non esiste morale e maturazione
spirituale se una persona non può essere libera di compiere il male. Quella
persona sarebbe un’arancia meccanica, un congegno, non un essere vivente. Per
questo nei campi di sterminio il suicidio e lo sciopero della fame erano
proibiti e severamente puniti, anche se acceleravano la morte dei detenuti.
Ogni atto di autodeterminazione era bandito.
In
una democrazia che rispetto libertà ed autonomia, io conto, le mie decisioni
possono fare la differenza, perché sono mie; non sono trascurabile, la mia
volontà ha un peso. Mi si devono delle spiegazioni, posso esprimere il mio
parere, posso contestare quello altrui, ho diritto di poter ascoltare il parere
altrui, di prendere parte alla vita della comunità. In questo risiede la mia
dignità, nel fatto che sono imprevedibile perfino a me stesso; sono solo
parzialmente determinato dal mio corredo genetico e dal mio ambiente socio-culturale;
c’è qualcosa in me che è unico e che è in larga misura inespresso.
Sono
un progetto, un lavoro in corso, posso e debbo riflettere su chi sono, da dove
vengo e dove voglio andare. Posso scegliere, mi creo e ricreo ogni giorno e non
sono un prodotto, un manufatto, una merce, un burattino, un automa. Posso
trovare il coraggio di essere me stesso, di vivere consapevolmente e sento che
questo enorme beneficio vale per tutti gli altri, che vivrei meglio in una
comunità in cui tutti potessero farlo, senza violare l’altrui diritto di
poterlo fare. Una comunità di persone libere e responsabili che si sforzano di
consentire agli altri di essere nelle condizioni di poter esprimere e
migliorare se stesse, di non nascondersi a se stesse ed agli altri, di cambiare,
di desistere e ricominciare da capo.
Non
sono la proprietà di nessun altro, neppure della mia comunità, di una casta,
della società, di una multinazionale, o dello Stato. Nessuno mi può trattare
come un bambino o un animale domestico se sono un adulto e mi comporto come
tale. Ci sono dei confini che non devono essere violati, ho dei diritti
inalienabili che mi permettono di procedere nell’elaborazione del progetto di
me stesso, assieme agli altri, coralmente. Mi pongo al servizio del prossimo ma
non sono a disposizione degli altri per qualunque cosa, eccezion fatta per le
persone che amo ed anche lì con dei distinguo.
Devo
poter vivere a modo mio anche se le mie scelte sono impopolari e magari persino
considerate aberranti, purché non leda il diritto altrui di fare lo stesso e
non danneggi il mio prossimo (ma non certo la sua sensibilità, che è un
arbitrio e come tale non merita rispetto a prescindere dalle circostanze e
dalla persona).
Il
dirittodovere alla tolleranza
È
più facile essere tolleranti quando si è consapevoli della nostra finitezza,
dei nostri difetti e della nostra ignoranza. La disposizione d’animo di chi
ritiene di poter apprendere dal prossimo è il fondamento della tolleranza.
Il
bisogno di convertire il prossimo al nostro punto di vista è invece alla radice
dell’intolleranza. La persona tollerante è pronta ad includere nel principio di
libertà l’altrui espressione anche di idee che personalmente ripudia.
Ciò
non significa però che la tolleranza debba essere illimitata. Esistono dei
principi fondamentali incastonati nelle nostre costituzioni che fanno sì che
non si varchi mai quella soglia oltre la quale una democrazia non è più in
grado di gestire un eccesso di pluralismo e sprofonda nell’anarchia,
nell’anomia, nel caos.
Il
dirittodovere alla democrazia ed all’uguaglianza
Democrazia
è bello perché le decisioni sono più ragionate e precise, perché ci sono meno
possibilità di lasciarci la pelle, perché c’è maggiore prosperità, perché una
società democratica è tenuta a difendere i suoi assunti fondanti: l’essenziale
dignità dell’essere umano; l’importanza di proteggere e coltivare la
personalità dei cittadini in un clima di collaborazione e non di divisione
(pluralità unitaria); l’eliminazione di privilegi basati su interpretazioni
arbitrarie ed esagerate delle differenze tra esseri umani; l’idea che l’umanità
possa migliorare; la convinzione che i profitti debbano essere ridistribuiti il
più possibile tra tutti ed in tempi ragionevoli; il pari diritto dei cittadini
di far sentire la propria voce su questioni delicate (coesistenza del maggior
numero possibile di opinioni, o pluralismo) e di decidere autonomamente chi li
debba rappresentare; la premessa che i cambiamenti sono normali, possono essere
molto vantaggiosi e vanno realizzati tramite processi decisionali consensuali
(spirito del compromesso, suffragio universale) e non con la prevaricazione e
la forza bruta.
La
democrazia è un ambiente in cui, idealmente, ciascuno, anche la persona più
mediocre, ha qualcosa da esprimere che merita la nostra attenzione, ha valore
di per sé e non in relazione ad un gruppo di appartenenza o riferimento, ed in
cui nessuno ha la verità in tasca. Di qui l’obbligo di concedere spazi di
sperimentazione per le coscienze. La società democratica è una grande scuola
dove tutti sono alunni e maestri, dove tutti imparano insegnando ed insegnano
imparando, dove è indispensabile essere curiosi, attenti e ricettivi e nel
contempo difendere la propria indipendenza di giudizio; dove ciascuno deve fare
la sua parte nel processo di democratizzazione delle relazioni umane, di
rafforzamento del senso di uguaglianza tra le persone, di espansione della
capacità di sospendere il nostro giudizio prima di aver ben compreso.
Ascoltare, dibattere, partecipare, deliberare, acconsentire, mettere in
discussione: solo così ogni singolo cittadino acquista valore, “peso”, diventa
consapevole del suo ruolo nella società e nel mondo e dell’importanza del
parere altrui.
Il
dirittodovere alla fratellanza (convivialità)
Il
più grave errore commesso dai rivoluzionari francesi è stato quello di
trascurare la fraternité, sacrificata in nome della lotta alla
controrivoluzione, all’edificazione di un’utopia in terra sfociata nel Terrore
giacobino, alla volontà di schiacciare il movimento indipendentista ed
anti-schiavista degli Haitiani, all’idea di una repubblica campanilista e
uniforme nella sua volontà che stava tanto a cuore a Jean Jacques Rousseau ed
ai suoi discepoli, Robespierre e Saint-Just.
Rousseau
ci offre un esempio particolarmente efficace di come si possa ripudiare
l’anelito alla fratellanza continuando però a credere di battersi per il bene
dell’intera umanità.
Orfano
di madre dalla nascita e di padre dall’età di 15 anni, senza fissa dimora,
Rousseau conduce l’esistenza di un nomade, legandosi a chi lo ospita,
specialmente a figure materne. È straniero in ogni luogo e patisce questa
condizione di precarietà ed estrema vulnerabilità. È ossessionato dall’altrui
generosità, eternamente sospettoso di ogni dono, delle motivazioni degli altri,
fino al punto da rifiutarli, per paura del fardello dell’obbligo di
reciprocità. L’ospitalità lo fa sentire alienato, un eterno straniero nel
mondo. C’è in lui una forte ambivalenza: ne ha bisogno ma odia il senso di
dipendenza. È ingrato verso le sue protettrici, senza l’assistenza e
l’ospitalità delle quali sarebbe restato nell’anonimato e magari persino
deceduto prematuramente. Finisce i suoi giorni come un eremita, prediligendo la
compagnia del suo cane a quella degli altri esseri umani e quella dei libri
alla compagnia di un amico. Preferisce il visitare all’essere visitato, si
sente ostaggio, non ospite; rifiuta i doni per non doverli ricambiare.
Immanuel
Kant è l’opposto di Rousseau. Per lui mangiare da solo è malsano, nocivo
(ungesund), equivale alla morte del filosofo, che perde vivacità ed acutezza,
non potendo avvalersi del contributo stimolante di un punto di vista
alternativo, quello dell’ospite al suo desco. Il filosofo che consuma il suo
pasto da solo diventa autarchico, auto-referenziato, si auto-consuma (il
proprio cibo, come le proprie idee, a ciclo continuo), disperdendosi (sich
selbst zehrt) in ragionamenti circolari, idee fisse, vicoli ciechi. Perde il
suo vigore, la vivacità dell’intelletto (Munterkeit). L’ospitalità è invece
apertura al resto del mondo, all’altro, è una messa in discussione di se
stessi, una breccia nel proprio egoismo. Per questo Kant sente il bisogno di
avere sempre degli invitati al pasto, a costo di domandare alla servitù di
invitare un passante a sedersi al tavolo con lui. La compagnia conviviale deve
essere eterogenea ed includere dei giovani, per variare la conversazione e
renderla più giocosa. Il piacere deriva dalla presenza di commensali con interessi
diversi dai nostri: “non mi attrae chi ha già ciò che possiedo, ma chi mi può
dare ciò che mi manca”, spiega il filosofo di Königsberg.
Al
contrario, Rousseau non sa gestire la diversità, ne è allergico, vorrebbe
controllarla. Non ama mangiare con gli altri: mangia un boccone alternandolo
con una pagina di libro. L’ospitante, nei suoi racconti, è incline al
dispotismo, all’assimilazione cannibalistica dell’ospitato. Per questo muore da
eremita, in preda alle allucinazioni, vittima del peso del matricidio,
l’uccisione della madre, l’ospitante per eccellenza.
Il
sentimento di fratellanza è quello dimostrato dal buon samaritano. Non viveva
per compiere buone azioni – aveva sicuramente altre occupazioni, nella vita –,
ma le faceva quando si presentava l’occasione. Non era l’amore a guidarlo, ma
la compassione. La regola d’oro, infatti, si applica in egual misura alle
persone che si amano o con le quali esiste un rapporto amicale o di intimità e
familiarità ed agli sconosciuti, agli stranieri, agli immigrati. Lo straniero
bisognoso d’aiuto non lo incomoda, non è più straniero, non è
etnicamente/razzialmente differente, non è meno reale e meno degno di lui.
Straniero, vicino, amico: non conta. Lo Stato salvaguarda i dirittidoveri, ma è
il samaritanismo dei cittadini che deve supplire alla sua inevitabile e anche
necessaria ed opportuna (in quanto lo stato è comunque coercitivo) assenza.
Nel
2009 Walt Staton, un programmatore elettronico dell’Arizona, è stato condannato
ad un anno di libertà vigilata per aver lasciato brocche d’acqua con scritto
“buena suerte” (buona fortuna) sul percorso attraversato dai chicanos che
entrano clandestinamente negli Stati Uniti attraverso la frontiera con il
Messico. Dava da bere agli assetati in un’area in cui negli ultimi vent’anni,
sono morti come minimo 5mila immigrati illegali, in gran parte per
disidratazione.
L’accusa:
aver inquinato il parco naturale Buenos Aires National Wildlife Refuge.
Libertà,
uguaglianza e fratellanza: o trionfano unite, o restano solo sulla carta.
Il
dirittodovere all’ospitalità (cittadinanza mondiale e beni comuni)
Umberto
Curi, storico e filosofo all’Università di Padova e Maria Chiara Pievatolo,
filosofa politica all’Università di Pisa, ci aiutano a comprendere la
dimensione politica e giuridica del principio di ospitalità (Curi, 2010;
Pievatolo, 2011) che ha come suo insigne pioniere nientemeno che Immanuel Kant.
Kant
concepisce un diritto cosmopolitico fondato su un principio cardine, quello,
appunto, dell’ospitalità universale: “il diritto che uno straniero ha di non
essere trattato come nemico a causa del suo arrivo nella terra di un altro”.
Questo perché “originariamente, nessuno ha più diritto di un altro ad abitare
una località della terra”. Anche per il filosofo di Königsberg siamo solo di
passaggio su questo pianeta, la cui superficie sferica e finita fa sì che non
possiamo evitare di incontrarci. Le nostre nascite sono del tutto accidentali,
per quanto ne sappiamo. Siamo nati in un certo luogo piuttosto che in un altro
e ciò non ci dà alcun diritto di reclamare un’area come nostra. Per lo stesso
principio nessuno può rivendicare alcun titolo preferenziale a risiedere in un
dato luogo piuttosto che in un altro. Se è vero, come è vero, che nessuno ha
più diritto di un altro di essere titolare di una porzione di questo pianeta,
poiché siamo tutti viaggiatori, allora la condizione originale dell’uomo è
quella di una relazione aperta, di condivisione, che respinge ogni pretesa di
esclusività. Il risiedere in un luogo, la delimitazione del proprio rifugio,
santuario, riparo, non assegna alcun diritto di possesso. La superficie della
terra e le sue risorse appartengono a tutti e a nessuno e non è pertanto inquadrabile nella logica del diritto d’uso
esclusivo e meno che meno della proprietà privata. Non esiste una terra
promessa ed un popolo eletto destinato a dimorarvi. Lo straniero per Kant è
ospite e lo si allontana solo se crea problemi, ma non se ciò comporta la sua
rovina.
Kant
parla di diritto alla visita, alla mobilità, in nome della socievolezza e del
destino comune (siamo su una stessa barca e non è grande): “diritto di possesso
comune della superficie della terra”. Esclude il possesso esclusivo:
“l’inospitalità è contraria al diritto naturale”. Per questo il diritto
cosmopolitico non è una “rappresentazione di menti esaltate”. L’evidenza del
fatto che la superficie terrestre è un possesso comunitario di tutti gli esseri
umani – con tutti i diritti fondamentali che ne conseguono – è rimasta
un’ovvietà per la quasi interezza della storia umana, ma non lo era per gli
europei che massacrarono i nativi americani proprio in virtù di un diritto
proprietario e di sfruttamento delle risorse antitetico a quello indigeno.
Gustavo Zagrebelsky ribadisce che dovrebbe ritornare ad essere un’ovvietà (Mauro/Zagrebelsky,
2011, pp. 101-102):
“L’idea
dell’essere umano come animale stanziale, un animale che, come altri, ha il suo
territorio e lo difende dalle intromissioni, deve essere un’idea del
profondo…La terra, questa “aiuola che ci fa tanto feroci” (Par., XXII, 151)
l’abbiamo divisa in tante parti e ce ne siamo impossessati, popolo per popolo,
come cosa nostra, e ci pare normale, naturale, l’idea di straniero, di colui
che passa o tenta di passare da un’aiuola all’altra turbando le sicurezze che
riponiamo “in casa nostra”. Quante volte abbiamo sentito ripetere anche da noi,
come se fosse ovvia e innocente, questa espressione!”
Kant
simpatizza per una posizione analoga a quella dei nativi americani ed invoca il
diritto di visita e di asilo, non certo il diritto di imporre con la forza la
propria volontà alle altre nazioni, come facevano le potenze coloniali.
L’ospitalità universale diventa uno dei pilastri imprescindibili per il
conseguimento della pace perpetua, la “comunanza tra i popoli della Terra”, in
un’epoca, la sua, in cui il pianeta si andava già globalizzando, tanto che: “si
è arrivati a tal punto che la violazione di un diritto commessa in una parte
del mondo viene sentita in tutte le altre parti”.
L’ospitalità
dovrebbe precedere, fondare ed orientare il diritto.
La
vera ospitalità deve superare la violenza intrinseca all’ospitalità, che
risiede nella dipendenza dall’altro, interiorizzata, e che nasce con il
concetto di proprietà. C’è un legame occulto, ma vibrante, tra il tuo e il mio,
me e te: siamo ospiti di questo pianeta. Siamo provvisori, nomadi, votati alla
scomparsa. Questo legame non ha nulla a che vedere con la pietà, ma piuttosto
con il rispetto e la devozione per l’ospite, nel quale riconosco l’estraneità
che alberga in me stesso: anch’io, come lui, nato e cresciuto per caso qui ed
ora. Anche e soprattutto così si realizza la promessa della fratellanza, il
terzo termine della triade rivoluzionaria francese.
Il
dirittodovere alla dignità
L’idea
di dignità umana – “ci sono cose che non si fanno agli esseri umani” – esisteva
in nuce già tra i Cro-Magnon che, a differenza dei Neanderthal, mostravano una
spiccata sensibilità nel trattamento dei cadaveri e pare si astenessero, in
genere, dal cannibalismo.
È
con Socrate – o, forse, prima di lui, con Pitagora – che si diffonde
nell’Occidente il precetto che tutti gli esseri umani hanno un medesimo valore,
pari dignità intrinseca, ossia il principio su cui si fondano lo stato di
diritto, le carte costituzionali di tutti i paesi democratici, le convenzioni
internazionali per la tutela dei diritti umani, insomma tutto ciò che ci separa
dalla barbarie. Socrate è convinto che sopravvivere non sia sufficiente;
occorre esserne degni e devono essere presenti quelle precondizioni essenziali
senza le quali la vita non è tollerabile e perde il suo valore specifico,
riducendosi ad un concetto astratto. Sopravvivere senza una coscienza integra è
peggio che morire. La vita del corpo non è il valore precipuo. C’è un confine
che molti esseri umani, come Socrate, non osano oltrepassare, ci sono azioni
che queste persone non commetterebbero mai, indipendentemente dagli ordini che
vengono loro impartiti o da quanto disperata sia la loro situazione. Questo
perché sentono, istintivamente, che varcata quella linea, non potrebbero più
tornare indietro, non ci sarebbe più un punto ulteriore dove marcare il confine
del nec plus ultra (non oltre). Una tale azione, se compiuta, causerebbe un
danno irreparabile dentro di loro, distruggerebbe qualcosa che vale più della
loro stessa vita. Eseguito un certo comando, diventerebbe più difficile
rifiutarsi di eseguirne altri, ancora più discutibili e riprovevoli.
La
soddisfazione con cui persone dalla coscienza assopita si prestano ad ogni tipo
di servizio corrisponde al patimento di chi quella coscienza ce l’ha ben desta
e non si rassegna all’idea di eseguire certi ordini. Per questo Socrate
affronta a testa alta un processo ingiusto, per insegnare a tutti che il valore
etico fondativo delle nostre società è la dignità, non la forza, il giudizio di
chi vince le elezioni, la presunta sovranità popolare incarnata nel capo.
Nuocere
o tentare di rimuovere la dignità di qualcuno significa trattarlo come se fosse
non completamente umano, uno strumento o una creatura subumana (Kateb 2011).
L’essere umano è l’unico animale indeterminato, in quanto parzialmente
non-naturale, cioè frutto dell’interazione di genoma, ambiente naturale ed
ambiente culturale. Proprio nella sua indeterminazione, ossia nell’assenza di
confini precisi, risiede la sua dignità intrinseca, che è il fondamento dei
diritti umani (nonché il suo libero arbitrio e quindi il senso morale e di
responsabilità). La sua fondamentale indefinitezza consente ad ogni singolo
essere umano di essere migliorabile: ha un potenziale indeterminabile,
inestimabile, appunto. È creativo, innovatore. Come aveva intuito Sartre, gli
esseri umani sono sempre più di quel che credono di essere in ogni singolo
istante della vita e se scelgono di negarlo, è per mala fede o falsa coscienza.
Tale è la nostra condizione che ogni persona è unica ed individuata, non
interscambiabile, anche quando non è interessata ad esserlo, senza però per
questo essere esistenzialmente e moralmente superiore a chiunque altro.
La specie umana è solo parzialmente naturale,
rappresenta uno scarto rispetto alla natura. Questo la rende la più speciale
tra le specie, ciascuna a suo modo speciale. L’umanità è la parte più
interessante della natura, nel bene e nel male, l’unica che può aiutare la
natura a riflettere su stessa. Per questa ragione, il prossimo passo dovrebbe
essere quello di comprendere e rispettare la dignità dell’ambiente naturale e
di chi vi dimora.
Una
volta che questi principi saranno condivisi da una massa critica di europei e
di ospiti di questo pianeta, l’Europa dei dirittidoveri, confederale, unione
euro-mediterranea, costruita dal basso e non calata dall’alto, diventerà un
modello per il mondo.
(Caracciolo, 2010).