La
casalinga londinese Barbara Carter aveva vinto la gara di beneficienza “Regala
un desiderio” e aveva chiesto di poter baciare e coccolare un leone. Il
mercoledì sera successivo era in ospedale in stato di choc e con evidenti
ferite alla gola. La signora Carter, 46 anni, era stata portata al recinto dei
leoni nel Safari Park a Bewdley. Mentre si sporgeva per accarezzare una
leonessa, Suki, questa le si è avventata contro e l’ha atterrata. Più tardi i
guardiani del parco hanno detto “Abbiamo commesso una grave errore di
valutazione”. (British news bulletin – 1976).
Avendo
già commesso un simile errore con un koala australiano, so bene che si tratta
di quello che i libri di testo definiscono la mancata comprensione della
distinzione tra un animale in quanto agente naturale e un animale in quanto
simbolo di cultura. Si presupponeva che il koala fosse tenero, mite e
rassicurante. Di questo mi sentivo certo, perché si trattava della stessa
creatura che per due settimane avevo presentato, nella primavera del 1959, ai
lettori del San Francisco Examiner, prima che il Governo Australiano concedesse
il suo trasferimento allo Zoo Fleishacker.
L’Examiner
era una pubblicazione Hearst, l’editore non era il tipo da farsi sfuggire un
pezzo sentimentale così accattivante; io avevo il compito del reporter che
anticipava l’argomento per assicurarne il successo. Non sapendo molto di
animali o quasi niente, tranne ciò che avevo letto nei libri da bambini e
appreso attraverso i cartoni di Walt Disney, consultai l’Encyclopedia
Britannica (Phascolarctos cinereus, pelliccia color cenere, animale notturno,
ghiotto di foglie di eucalipto), ma per lo più mi basai su Winnie-the-Pooh di
A.A.Milne, I Racconti del Coniglio Brer e su immagini di repertorio del
Presidente Teddy Roosevelt, al cui nome s’ispirò nel 1903 un creatore di
giocattoli di Brooklyn per creare ed imbottire il famoso orsacchiotto.
Fedele,
benevolo e saggio, il koala che veniva dagli antipodi era il piccolo amico di
tutto il mondo. Il giorno del suo arrivo all’aeroporto, io portai un mazzo di
rose avvolte in fogli di giornale. L’editore aveva imparato il mestiere a
Hollywood negli anni ’40 e aveva in mente una foto di me che abbracciavo
teneramente l’orsetto per dargli un caldo benvenuto. “Un cucciolo smarrito
trovato nella foresta”, quello era il titolo che aveva in mente. “Torna a casa
Lassie”. Ma il koala non seguì il copione. Infastidito dai flash dei fotografi,
si aggrappò violentemente alla mia testa e alle mie spalle, distrusse le rose e
urinò sui miei pantaloni e sulle mie scarpe.
Tuttavia,
l’inconveniente non apparve sulla stampa. La fotografia era stata scattata
prima dell’imprevisto. E così, il giorno dopo, sui giornali, eccoci là, io e il
koala, l’uomo e la bestia, felici di essere insieme…il Christopher Robin del
San Francisco Examiner incorniciato in un quadretto accanto al Coniglio Brer, a
Teddy Roosevelt e a Winnie-the-Pooh, tutti per uno uno per tutti, nel nostro
piccolo angolo di Paradiso.
LA
PANTOMIMA DI BESTIA
Voci
e notizie sui rapporti tra uomo e animali le troviamo nelle storie più antiche
del mondo, nelle stelle dello zodiaco, raffigurate nelle caverne preistoriche,
tra i geroglifici delle antiche scritture egizie, nella filosofia greca, nella
religione induista, nell’arte cristiana, nel nostro stesso DNA. Parti
integranti della vita quotidiana dell’uomo fino verso la fine del 20° secolo,
gli animali sono stati allo stesso tempo agenti naturali e simboli di cultura.
Compagni fedeli e silenziosi, hanno donato tutta la loro energia sia come
strumenti di lavoro sia come cibo arrostito, pur possedendo qualità e virtù
molto simili a quelle dell’uomo.
Nell’impossibilità
di dare lezioni pubbliche, il leone e l’elefante hanno insegnato con l’esempio;
lo stesso hanno fatto la tartaruga, il lupo e la formica (le favole di Esopo,
composte nel sesto secolo prima di Cristo); e in seguito nelle ricerche di
Aristotele, 200 anni dopo, con la sua Storia degli Animali, fu chiaramente
delineato il quadro epistemologico che, per i successivi due millenni, avrebbe
inglobato la presenza degli animali al centro del cerchio di quella che
definiamo la civiltà occidentale:
"Così
come evidenziamo somiglianze negli organi fisici, allo stesso modo in alcuni
animali osserviamo gentilezza o fierezza, mitezza o cambiamenti umorali,
coraggio o timidezza, paura o sicurezza, acume o poca astuzia. Altre qualità
dell’uomo le troviamo negli animali in forma analoga, non proprio identica; ad
esempio, così come in un uomo possiamo rilevare conoscenza, saggezza e
intelligenza, allo stesso mondo in alcuni animali troviamo altre naturali
potenzialità simili a quelle".
Gente
di altre parti del mondo hanno sviluppato diversi tipi di relazioni con
animali, venerandoli come fossero dei; ma sulla scena europea gli animali sono
stati un grande insegnamento di scienza naturale e politica. Più si comprendevano
le loro “qualità analoghe e non identiche” a quelle dell’uomo, più fantastiche
esse divenivano.
L’apicoltura
praticata da Virgilio sui suoi terreni nel 30 a.C. lo portò ad ammirare, nel
libro quarto delle Georgiche, la loro ottima etica di lavoro – “All’alba si
riversano fuori dalle arnie, senza indugiare” ammirando così il loro senso del
bene comune – “condividono un’unica casa nella loro “città”/vivendo in modo
altamente rigoroso scandito da leggi ferree”- lodandone la loro castità -
"Non si attardano nella copulazioni e non indulgono sul proprio corpo in
maniera erotica”.
Gli
studi di Plinio il Vecchio del primo secolo dimostrarono, con sua grande
soddisfazione, che le meraviglie del mondo animale erano tali che l’uomo, al
loro confronto, “niente sa e niente riesce a imparare a meno che non gli venga
insegnato: non potrebbe camminare, o parlare, o mangiare, o qualsiasi altra
cosa a meno che non lo impari dalla natura; potrebbe solo piangere”.
All’approccio
scientifico nell’osservazione degli animali adottato dai poeti e filosofi
Greco-Romani, la Cristianità medievale aggiunse la dimensione fantastica – non
ci si poteva fidare di nessun elemento naturale a meno che non fosse stato
battezzato con un simbolo o imbrigliato in un’allegoria. Nelle pagine illuminate
delle bibbie del decimo secolo e nei rosoni delle cattedrali gotiche, l’ape
divenne il simbolo della speranza, il gallo e la capra un simbolo di Satana, la
mosca indicava la lussuria, l’agnello e la colomba impersonavano alternatamente
la figura di Cristo. Invece di sottolineare gli straordinari talenti di alcuni
animali, i religiosi davano forma ad esseri mitologici, tra cui il drago
(enorme, con ali di pipistrello, che sputava fuoco, dalla coda irsuta) e
l’unicorno (corpo bianco, occhi azzurri, un unico corno con la punta rossa).
La
rinascita dell’antichità classica nell’Italia del quindicesimo secolo, riportò
l’osservazione delle correlazioni esistenti tra uomo e animale. I dipinti
anatomici nel quaderno degli schizzi di Leonardo da Vinci (cavalli, cigni,
cadaveri umani) sono opere d’arte di uguale valore che l’Ultima Cena o la Monna
Lisa. Egli vedeva gli esseri umani come organismi tra altri organismi nel
grande cerchio dell’esistenza, con le varie forme di vita che si fondevano una
dentro l’altra nelle varie composizioni di aria, terra, fuoco e acqua. Il
ritratto di Arcimboldo del 1566 di una testa d’uomo, anticipava la conclusione,
poi raggiunta nel 1605 dal Vescovo inglese Joseph Hall, che: "l’umanità,
quindi, ha dentro di sé capre, camaleonti, salamandre, cammelli, lupi, cani,
suini, talpe e qualsiasi altra bestia: sono pochi gli uomini tra gli uomini”.
I
naturalisti del diciottesimo secolo condividevano di Virgilio l’osservazione
nel regno animale di quei segni delle loro ottime capacità di governarsi. Il
Conte di Buffon, responsabile del Giardino Botanico Reale per Luigi XV,
riconobbe nel castoro notevoli doti di architetto, capace com’era di costruire
grandi dighe; ma era ancora più ammirato dalla capacità del castoro di
costruire un proprio sistema sociale, “con quel particolare modo di
comprendersi gli uni gli altri ed agire di conseguenza. Per quanto numerose
possano essere le comunità di castori, in esse regnano sempre la pace e
l’ordine”.
Buffon
era abituato, come Virgilio e Leonardo, non solo alla compagnia dei cavalli e
delle api, ma anche alla vista e ai suoni di anatre, vacche, galline, maiali,
tartarughe, capre, conigli e falchi. Questi gli fornivano sì il bacon, la zuppa
e le uova, ma anche la domanda: “Chi può mai dire…quanta operosità, generosità
e affetto abbiamo imparato noi umani dalla pantomima delle bestie?”
COME
IL MONDO ANIMALE HA SMARRITO LA SUA LICENZA DI INSEGNANTE
Non
molto, se le bestie non ci sono più. Nel corso degli ultimi due secoli, gli
animali sono divenuti invisibili nel sistema di vita Americano, non più
considerati compagni “storici” della società umana, scomparsi dal paesaggio
rurale e urbano. Nel 1813, John James Audubon, sulle sponde del fiume Ohio
River, restava di stucco di fronte ad un massacro di migliaia di piccioni
selvaggi da parte di centinaia di uomini, armati di pistole, torce e bastoni di
ferro. Nel 1880, in una riserva di Indiani Sioux nel territorio Dakota, Luther
Orso-in-Piedi, non riusciva a mangiare la carne di “bue puzzolente” in
sostituzione del loro “bufalo selvaggio”, che l’uomo bianco aveva decimato in
poco tempo.
E
non erano i soli ad osservare questo cambiamento. Molti altri avevano notato la
scomparsa degli animali dalla vita e dalla cultura umana. Ad esempio, nel 1900,
per le strade di New York City, si potevano trovare tra i 150.000 e i 200,000
cavalli, il che significava la raccolta di cinque milioni di libre (2.3 milioni
di chili) di letame. Nel 1912, la loro funzione di mezzi di trasporto si era
notevolmente ridotta con l’avvento dell’automobile.
E
come accadeva ai cavalli da tiro, lo stesso avveniva per la maggioranza dei
“compagni dei lavori agricoli” dell’uomo. Lontani dagli occhi, lontani dal
cuore, la gallina, il maiale e la mucca hanno perso la loro licenza di
insegnamento.
La
moderna società industriale che nasceva nel ventesimo secolo li ha trasformati
in beni e prodotti, persi nel vortice del progresso economico e scientifico,
altrimenti detto “conquista della natura”.
Gli
animali acquisirono le identità che gli conferiva l’uomo, divennero etichette
sui cibi surgelati, conservando solo una piccola parte del loro valore
intrinseco nella misura in cui fossero strumenti di ricerca o simboli culturali
– il circo, lo zoo, un logo aziendale o un personaggio dei cartoni animati di
Hollywood, un ingrediente attivo del salmone fresco d’allevamento o carne
bovina geneticamente modificata.
Fu
dieci anni dopo il mio incontro con il Koala Australiano che ho fatto la
conoscenza di un animale allo stato naturale – un entello grigio (una scimmia
asiatica, Semnopithecus entellus, pelliccia dorata, golosa di frutta e fiori).
Era alta più o meno 60 centimetri, rapida nei movimenti, una delle 60 o 70
specie di scimmie che abitano l’eremo del Maharishi Mahesh Yogi sulle rive del
Gange, 128 miglia (206 chilometri) a nord di Nuova Delhi.
A
quel tempo (Febbraio 1968) il Maharishi era all’apice della sua fama di guru;
la celebrità della sua scienza della Meditazione Trascendentale aveva raggiunto
Los Angeles, New York e Londra, e proprio in quell’inverno teneva lezioni sulla
calendula gialla (pianta officinale per l’ipertensione arteriosa n.d.t.) ad un
gruppo scelto di discepoli, tra i quali i quattro Beatles, durante un loro
viaggio nella spiritualità orientale, alla ricerca di un nuovo benessere
illuminato, lontani dal loro decadente e materialista mondo occidentale.
L’eremo
era immerso in una foresta di alberi di teak e sheesham (un tipo di legno
indiano) ai piedi del gruppo dell’Himalaya. Incaricato dalla stampa americana,
mi era stato proposto dal direttore del Saturday Evening Post di ascoltare la
voce del cosmo sotto il tetto del mondo. Durante le mie tre settimane
nell’eremo non ho saputo sui Beatles niente di più di quanto già sapessero i loro
fan, e dal Maharishi niente di più che il fatto che al quinto stadio di
consapevolezza “Tutto diventa ridicolo”. Ma dalla scimmia imparai che essa era
qualcosa di diverso: non soltanto un animale, un piccolo amico dell’uomo, una
semplice allegoria, un personaggio del cinema o un esperimento di laboratorio.
Due
giorni dopo il mio arrivo la notai, in piedi, su un albero di fronte al piccolo
rifugio dove mi era stato detto di alloggiare (una stanza di pietra bianca,
senza finestre), vicino all’entrata secondaria dell’eremo. Dopo due giorni, la
scimmia era sempre là ogni volta che entravo o uscivo dal rifugio e sentivo che
ero io ad essere osservato dalla scimmia, non la scimmia ad essere osservata da
me.
La
mattina del quinto giorno le offrii una fetta di pane; più tardi, nel
pomeriggio, mezza arancia. Ovviamente, accettò entrambe le offerte; ma nessun
segno di riconoscenza o gratitudine o affetto. Interpretai questo suo
atteggiamento come se io fossi stato lento nell’adeguarmi agli usi del luogo.
Quella stessa sera, uno dei collaboratori del guru, un monaco con la veste
giallo zafferano di nome Raghvendra, confermò questa mia idea. In India, mi
disse, l’entello grigio era un animale sacro, più conosciuto col nome di Langur
– Hanuman, il nome della divinità induista dalle sembianze di scimmia, dio
della guarigione e del culto – adorato per la sua propensione ad accompagnare i
pellegrini. Per questo godeva più o meno degli stessi privilegi delle vacche,
libertà, quindi, di mangiare dai banchi dei mercati e dai magazzini di grano.
Per
qualche strano motivo, o forse per più di un motivo, la scimmia, nei dieci
giorni successivi, è rimasta sempre vicina a me, all’altezza del mio ginocchio
destro, accompagnandomi nel …cammino verso la pura conoscenza, un cammino
durante il quale mi sono giustamente adoperato nel dispensare briciole di
cioccolato indurito e scaglie di formaggio secco. Se andavo nella sala riunioni
ad ascoltare il Maharishi che parlava di Vishnu, la scimmia rimaneva lì ferma
sul tetto di lamiera corrugato; quando veniva servito il pasto sulla terrazzo,
lì dove i discepoli ricevevano la loro razione quotidiana di riso, tè e verdure
bollite insipide, la scimmia faceva capolino tra il pergolato, dietro il tavolo
dei cibi, pronta a correre in direzione di qualche pezzo di di carota o rapa
stracotta che avrei potuto tirarle.
Quando
uscii dal rifugio, il mio ultimo giorno, per incamminarmi verso il traghetto
che attraversava il Gange, vidi che la scimmia non era più in piedi sul solito
albero. Forse aveva compreso che il mio tempo era finito, che aveva fatto tutto
il possibile per un pellegrino lento di comprendonio e che non conosceva la
lingua. O forse, no. Quello che è certo è che non gliene importava granchè. Era
andata avanti nella sua vita, da qualche altra parte, forse annoiata di sentire
una voce che non era esattamente la voce del cosmo.
Alca impenne
LA
SCOMPARSA DEGLI ANIMALI
Lo
studioso e saggista rinascimentale Michel de Montaigne si domandava già nel
1576: “Quando gioco con il mio gatto, chissà se è lui il mio passatempo o se
sono io il suo.” Il dubbio di Montaigne sorgeva alla luce dell’insegnamento
biblico secondo il quale l’Uomo era stato creato ad immagine di Dio e, quindi,
gli era stato dato “il dominio sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e
su ogni altro essere che si muove sulla terra”.
La
pretesa del trono dell’universo da parte di quella che Montaigne definiva “la
più fragile e vulnerabile tra le creature”, egli la considerava un’impudenza
vanagloriosa; “l’Uomo che si abbiglia come un Dio e si tiene a debita distanza
dalle orde delle altre creature, conferendo a questa o a quella quello facoltà
e capacità a suo piacimento”. Divertito da questo ragionamento, Montaigne
continuò domandandosi anche: "Come può (l’uomo) conoscere, con la sua
intelligenza, l’intimo sentire degli animali? Da quale confronto tra loro e noi
egli ne deduce la stupidità che gli attribuisce? E’ solo una deduzione, che
porta in sé l’errore di una mancata reale comprensione reciproca; poiché noi
non comprendiamo loro tanto quanto loro non comprendono noi. Per questo stesso
ragionamento anche loro possono considerare noi bestie, come noi consideriamo
loro.”
Lo
scrittore Americano Henry Beston riprese questi interrogativi mentre camminava
sulla spiaggia di Cape Cod negli anni ’20, mentre osservava le costellazioni di
uccelli acquatici formarsi e riformarsi “in silenziosa e costante obbedienza,
come se rispondessero ad un misterioso comando. Affascinato dai voli a spirale,
che paragonava a “stelle viventi”, Beston comprese che le creature “non
umane" eludevano la definizione che l’uomo gli aveva attribuito, e cioè
che gli animali non potevano considerarsi meccanismi programmati dal Grande
Meccanismo Creatore nel cielo per saltare, emettere versi, nuotare, librarsi in
volo, ruggire, fare nidi, strisciare, osservare e accoppiarsi.
"Abbiamo
bisogno” disse Beston “ di un nuovo concetto più sacro degli animali…Noi li
sovrastiamo per la loro incompletezza, a causa del destino che li ha creati in
forme inferiori a noi. Ma sbagliamo, e molto. Non sono sottospecie, non sono
esseri inferiori; loro sono altre nazioni, che esistono insieme a noi nella stessa
nostra rete di tempo e di esistenza, anch’essi prigionieri dello splendore e
del travaglio della terra”.
Con
l’avvento del 21° secolo, ciò che resta dell’antica fratellanza tra uomo e
animale è per lo più legata alla convivenza e alla cura di un animale
domestico. Probabilmente, per compensare la rapida ed inesorabile scomparsa
delle specie del mondo animale, il numero degli animali domestici negli Stati
Uniti ha superato quello dell’intera popolazione umana a sud del Potomac e ad
ovest del Mississippi – 70 milioni di cani, 75 milioni di gatti, 5 milioni di
cavalli. E Dio solo sa chissà quanti rettili e uccelli in gabbia…
Che
gli animali siano ancora fonte di insegnamento, o che abbiamo quelle “qualità
analoghe” che Aristotele definiva “forme di intelligenza”, è una teoria
fortemente sostenuta dai numerosi documentari che esplorano le giungle
dell’Africa e dal fatto che i video di gatti postati sulla rete sono molto più
visti di quelli dei costosi pupazzi meccanici che fanno da sfondo rituale ai
Super Bowl.
Per
2,500 anni gli studiosi della natura hanno realizzato che più essi imparavano
degli animali e più meravigliosi questi gli apparivano. L’osservazione spesso è
affidata a strumenti scientifici e artistici, ma è ancora più istruttivo
guardare, come faceva Beston a Cape Cod, il modo in cui altre nazioni si
completano in se stesse “con quel dono dell’estensione dei sensi che noi
abbiamo perso o mai raggiunto, e dell’ascolto di voci che noi non sentiremo
mai.”
I
rapporti sui danni ambientali dai quattro angoli del mondo degli ultimi
duecento anni non lasciano più spazio alla domanda di Montaigne su chi sia la
bestia e chi l’uomo.
Che
sia condotta da uomini armati di provetta o bulldozer, la conquista della
natura è un impresa di folli. Nonostante tutto, gli animali riescono a vivere
non solo a loro agio nella grande catena dell’esistenza, ma anche in armonia
con le maree, con le stagioni e con la presenza della morte: è questo il loro
grande insegnamento all’umanità. Sia che ci decidiamo ad impararla, sia che
prendiamo la strada dell’ Alca Impenne (una specie di pinguino, estinta nel 19°
secolo.
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