“Se
l’Italia avesse cura della sua storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i
regimi non nascono dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi
invincibili”
Pier
Paolo Pasolini. 1965
I
sistemi politici vengono modificati da nuove leggi, che cambiano l’assetto
istituzionale e fondano una nuova società. E’ così dal lontano giorno in cui
Mosè scese dal monte Sinai con i dieci comandamenti scritti sulla pietra.
Ma
le leggi –a meno che non si tratti di imposizioni dittatoriali di una ristretta
oligarchia- vengono cambiate quando le istituzioni riconoscono e accettano il
principio della necessità del nuovo giuridico perché una rivoluzione si è già
consumata in ambito psico-sociale. Le condizioni, cioè, sono già cambiate
perché è avvenuto uno “scatto mentale” in quella etnia, popolo, nazione, Stato
che sia.
Si
è verificato un mutamento dei parametri, è nato un nuovo status symbol, si è
già esteso un totale diverso comportamento da parte della popolazione. Questa
diversità si manifesta dapprima in cerchie e circoli molto ristretti, poi si
diffonde in maniera capillare, e se riesce a dilagare diventa di massa,
permeando l’intero tessuto sociale, attraverso la formulazione e la
coniugazione di nuove parole, la fondazione di un Senso e di un Significato
originale.
La
Legge, che certifica e sanziona la costituzione di una società, può essere
quindi il primo gradino della nuova società, ma anche l’ultimo atto di un lento
e complesso lavorio sotterraneo che produce un nuovo humus, vero e proprio
magma sociale che alla fine erutta dalla bocca del vulcano sociale che annuncia
la nascita di un Nuovo Sistema di Valori. La Legge arriva quando già sono
cambiati i comportamenti, le parole consuete sono già state sostituite da
parole altre, e l’intera società è pronta ad accogliere sia i cambiamenti che
le modificazioni esistenziali. Infine arriva l’Istituzione che organizza e
gestisce la necessità del nuovo corso.
Le
rivoluzioni e i grandi stravolgimenti nascono sempre prima come “evento
esistenziale individuale” che poi diventa collettivo e si trasforma in una
poderosa onda di rinnovamento.
La
differenza tra le dittature e le democrazie evolute consiste nel fatto che
nelle dittature una ristretta pattuglia di individui stabilisce le leggi e le
impone attraverso la violenza, la sopraffazione, la negazione di ogni forma di
libertà: o si accettano le decisioni dall’alto oppure si viene eliminati dal
consorzio civile. Nelle democrazie evolute, invece, le Leggi sanzionano e
codificano ciò che dalla società nasce come esigenza collettiva di un
patrimonio comune, condiviso, riconosciuto. Se nel 1890, durante il regno della
regina Vittoria, in Gran Bretagna avessero varato una legge che consentiva il
matrimonio tra gay, sarebbe scoppiata la guerra civile e l’impero inglese
sarebbe crollato. Quando invece la legge è stata promulgata non è accaduto
nulla se non la presa d’atto che veniva codificato ciò che la società aveva già
acquisito e promosso prima. Stessa cosa per ciò che riguarda il voto alle
donne, l’abolizione della schiavitù, in Usa il diritto dei neri
all’equiparazione, e via dicendo.
L’Europa
è stata, negli ultimi secoli, teatro e protagonista di un quadro di evoluzione
sociale, passando attraverso diversi rivolgimenti che hanno portato infine a
nuove leggi, nuovi assetti e a un progresso collettivo.
Fino
al 2001.
Le
popolazioni, le singole nazioni hanno impiegato almeno dieci anni per rendersi
conto in Europa di ciò che era accaduto. Non era facile capirlo. Perché è
avvenuto secondo una manovra dittatoriale subdola e clandestina, oltre al fatto
che, all’inizio, i dittatori sono proprio come il diavolo: tentano gli
individui mascherati da angeli. Nessun dittatore mai nella Storia ha preso il
potere presentandosi come un efferato dittatore, ma sempre come un
bonificatore.
La
gigantesca crisi epocale che stiamo vivendo oggi, in Europa, non è altro che la
presa d’atto collettiva, a livello continentale, che un manipolo di persone,
impiegate da giganteschi colossi internazionali della finanza, quindici anni fa
ha “inventato” e imposto dall’alto una serie di regole economiche e di nuove
specifiche leggi in forma dittatoriale: nessuno ha mai chiesto l’opinione dei
popoli e aggiungo, le nuove disposizioni
legali non erano il prodotto di una esigenza che si stava manifestando in
ambito sociale collettivo bensì un’idea unilaterale calata dall’alto da una
oligarchia aristocratica. Nessuno ha chiesto il Fiscal Compact, nessuno ha
chiesto l’austerità come forma di scambio economico, nessun ceto, gruppo
sociale, nazione o popolo ha chiesto ciò che invece è stato imposto provocando,
in Italia, la più grave recessione e
crisi economica degli ultimi 70 anni.
Queste
decisioni sono state prese, in Italia, secondo un’alleanza consociativa tra i
rappresentanti della destra e i rappresentanti della sinistra. Romano Prodi e
Silvio Berlusconi sono stati i due padri nazionali che hanno varato, gestito e
imposto una idea del mondo, della società e quindi delle esistenze individuali,
il cui risultato è sotto gli occhi di tutti. Ma negli ultimi tre anni è
accaduto un fatto per loro imprevisto, se pur prevedibile. Il nuovo sistema di
comunicazione ha consentito lo scambio di notizie a una gigantesca moltitudine
di persone che hanno cominciato a dibattere, discutere, confrontarsi, finchè si
è arrivati a un punto nodale: le persone hanno incorporato l’idea –nel senso
che l’hanno davvero capito- che quella legiferazione era una forma blanda di
dittatura oligarchica e hanno iniziato a ribellarsi. E poiché le dittature
vivono di consenso e di ideologia, quando il consenso cade e la gente capisce
che quei simboli, quei feticci, quei collanti, non sono altro che una
“finizione rituale”, allora il sistema s’inceppa e il meccanismo automatico si
blocca.
Al
di là delle zuffe quotidiane tra Berlusconi e i magistrati, tra il movimento a
5 stelle e il PD, tra fautori dell’uscita dell’euro e suoi antagonisti, l’unica
vera notizia (che anche i più riottosi cominciano a comprendere) è che ci
troviamo davvero all’inizio della fine di un sistema. Non a caso, salta proprio
nel suo ganglio istituzionalmente più debole: la Repubblica Italiana, ovvero la
democrazia più fragile di tutta l’Europa occidentale, la più ipocrita e
corrotta, la più medioevale, la più inattendibile; e quindi quella che presta
maggiormente il fianco alla esplosione delle contraddizioni di un meccanismo
che non funziona più.
Questa
era una premessa. E finisce qui.
Tutto
ciò che ho scritto finora è una sintesi piatta e banale, piena di
considerazioni che, per la maggior parte dei lettori, sono ormai ovvietà ben
digerite.
Appunto.
Le
cose sono davvero cambiate, perché è cambiato il quadro di riferimento.
Soltanto
due anni fa sarebbe stato impensabile che la Corte Costituzionale tedesca
dichiarasse il fiscal compact non legittimo.
Così
come un anno fa sarebbe stato impensabile il fatto che la Francia -come
annunciato un mese fa- rivedrà l’accordo perché non ha nessuna intenzione di
rispettare i termini entro il 2014.
Così
come sei mesi fa sarebbe stato impensabile –direi inconcepibile- l’idea che il
M5s sarebbe diventato il primo partito votato dagli italiani, con il PD a
inseguirlo nella atroce e suicida strategia di convincerlo a sottoscrivere un
patto di governo.
Così
come dieci giorni fa sarebbe stato impossibile da credere che potesse essere
autentica la dichiarazione di Sposetti, nota figura politica italiana di
persona per bene, tesoriere dei DS dentro al PD, un cittadino che vanta 40 anni
di militanza politica attiva, prima nel Pci poi nei DS e infine nel PD, il
quale ha dichiarato che se lui avesse adesso 20 anni “molto probabilmente, per
non dire quasi certo, avrei votato per Grillo, anche se, nella mia posizione,
non lo dovrei dire, però è così”.
Cambiano
i parametri di riferimento.
E
noi ancora non siamo in grado di rendercene conto perché siamo dentro alla
Storia mentre si sta manifestando, ed essendone parte integrante non ci
accorgiamo di ciò che davvero accade.
Questo
è il post-Maya, di cui stiamo assaggiando i primi vagiti.
Quello
annunciato da Evo Morales, il presidente della Bolivia, in una sua
dichiarazione all’Onu lo scorso ottobre, soltanto 6 mesi fa, quando dichiarò
che “il 21 dicembre del 2012 noi celebreremo la fine del capitalismo così come
lo abbiamo sempre visto manifestarsi, ed entreremo in una nuova fase della
Storia in cui si esprimerà la volontà collettiva di essere cittadini e non più
sudditi, di cominciare a distanziarsi dalla avidità, dal danaro come centro
dell’esistenza, per andare a costruire un’idea di comunità che si occupi dei
beni comuni nell’interesse generale di tutti”. In Europa gli risero appresso e
il suo intervento all’Onu non venne neppure diffuso come notizia. Si pensava che
si trattasse di una idea balzana, a metà tra un singulto New Age e un delirio
demagogico populista. Non c’è da stupirsi, quindi, che nessun media italiano
–che io sappia- abbia dato la notizia di ciò che Evo Morales ha fatto il 9
marzo 2013, non appena rientrato in patria da Caracas dove era andato per il
funerale di Hugo Chavez.
E’
un atto importante perché segna la cifra di ciò che sta accadendo nel
continente sudamericano, ormai dichiaratamente lanciato in uno scontro aperto
contro le politiche di sfruttamento del Fondo Monetario Internazionale, per
condurre una battaglia politica e civile a nome di tutti. Anche di noi europei.
L’8
marzo, due giorni fa, in Italia, in occasione della festa della donna, tutte le
reti televisive hanno trasmesso per tutto il giorno notizie, documentari,
interviste, intrise di una piatta retorica, inutile quanto obsoleta, nel
tentativo di presentare l’Italia come una nazione all’avanguardia sul piano dei
diritti civili e dell’equa opportunità di genere. Le stesse reti hanno scelto
di non diffondere né la notizia né il discorso di Evo Morales alla nazione
boliviana. Il presidente boliviano ha annunciato di aver varato una legge dello
Stato che “riconosce il reato di femminicidio come attentato contro l’umanità”
punendolo con la pena di 30 anni senza attenuanti. Non solo. Ha istituito anche
–per la prima volta nella Storia e primo paese al mondo- il reato di “delitto
mediatico contro la donna”. Nella promulgazione della nuova legge sul
feminicidio (composta di ben 100 articoli) si legge “la violencia feminicida es
una acción de extrema agresión, que viola el derecho fundamental a la vida y
causa la muerte de la mujer, por el hecho de serlo, y en este sentido tiene que
ser reconocido como un delito contra la humanidad" (trad.: la violenza
femminicida è un’azione di aggressione estrema, che viola il diritto
fondamentale alla vita e provoca la morte della donna per il solo fatto di
essere tale, e quindi deve ascriversi come delitto contro l’umanità).
La
legge comprende la punizione dell’atto fisico, ma anche quello psicologico, il
danno simbolico, sessuale, patrimoniale, e per la prima volta viene introdotto
il concetto di “delito mediatico” laddove, la nuova terminologia indica con
accurata precisione “la perdurante e costante visione di un’idea della
femminilità abbrutita che offre una immagine della donna come merce sessuale di
scambio degradando la sua umanità di cittadina, che ha il diritto legale di
essere considerata alla pari del maschio perché va identificata prima di ogni altro
aspetto come persona”.
Alla
presentazione pubblica della nuova legge hanno partecipato centinaia di
rappresentanti di organizzazioni femminili e femministe di tutto il continente
americano (circa una decina proveniente dagli Usa) e i rappresentanti
dell’osservatorio sui diritti civili dell’Onu che ha definito la Bolivia
“insieme all’Argentina, Uruguay, Chile, Ecuador e Brasile, il gruppo di nazioni
al mondo che più di ogni altra in assoluto hanno accelerato il processo
legislativo in materia di diritti civili”.
Mancavano
soltanto le rappresentanti delle organizzazioni europee.
Laggiù,
in Sudamerica, le nazioni, gli stati e i popoli, già da molto tempo si sono
gettati nel post-Maya dichiarando guerra al concetto di sudditanza, varando una
serie di leggi che riconoscono sempre di più il rispetto dei diritti civili a
una fetta sempre più ampia di umanità. Per i sudamericani le nuove severe leggi
contro la violenza ai danni delle donne sono un momento della più vasta lotta
contro le politiche di austerità e di schiavizzazione volute e varate dal Fondo
Monetario Internazionale in connubio con la BCE.
La
Storia cambia pagina.
L’impatto,
a breve, comincerà ad arrivare anche da noi.
Il
nostro paese, così come il resto d’Europa, è pronto ormai per una stagione
esaltante di nuove leggi.
E’
ciò di cui abbiamo bisogno.
Prima
fra tutte la revisione del Fiscal Compact, la ben congegnata truffa che è
all’origine del disagio collettivo sociale nel nostro continente alla deriva.
Di
Sergio di Cori Modigliani
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