"Spesso ci sono più cose negli spazi bianchi tra le righe, che nelle parole".
Era
arrivato dall’Abruzzo da poco per seguire i suoi genitori alla ricerca della
possibilità di pagare i sogni non solo con la fatica.
Era
magro e lungo come la sua malinconia, parlava poco e quasi sempre in dialetto,
che, comunque capivamo perfettamente avendo già altri piccoli amici provenienti
da quel paesino tra i monti della Marsica I loro racconti a noi ragazzi di periferia avevano fatto assumere
ai monti e alle valli del Sangro lo stesso fascino dell’India misteriosa dei
racconti salgariani.
Storie
di lupi e camosci, di vipere, trote e libertà… tanta libertà.
Forse
era per questo che i suoi occhi. al solo ricordo del borgo natio, si coloravano
dello stesso blu dei cieli d’Abruzzo e si velavano al pari della foschia mattutina.
Nonostante
la sua aria malinconica era, comunque, simpatico e ben accetto da tutti, anche
se non eccelleva in alcuna di quelle attività capaci di dare prestigio ai piccoli ma già competitivi
bambini. Non correva forte, non sapeva giocare bene al calcio, si vergognava a
fare alcune delle tipiche, ingenue gare tra piccoli maschi come quella di chi
piscia più lontano. In verità non che anche io le amassi molto, ma riuscivo a
dissimulare meglio di lui il mio disagio. Tanto sapevo sarebbe finito tutto in
una irrefrenabile e liberatoria risata.
I
nomi tipicamente abruzzesi; Cesidio, Tonio, Sabatino erano ormai perfettamente
integrati e accettati dagli Adolfo, Mauro, Carlo rappresentanti tipici, invece,
della borgatara periferia cittadina.
A
scuola l’avevano messo in una classe differenziata, viste le sue difficoltà di
comunicare con modi, a detta dei suoi insegnanti ,scorretti e non rispondenti alle norme e ai regolamenti ministeriali dell’epoca. Non era ancora previsto l’insegnante di sostegno e l’inserimento dei piccoli con difficoltà era visto
come una mera perdita di tempo.- “Tanto andrà a fare l’operaio come il padre.
Non gli servirà studiare.”
Arrivò
l’estate e con essa la conquista piena del proprio tempo, tra interminabili
partite a pallone sulla strada, interrotte spesso per consentire il passaggio
di qualche rara automobile, le corse a piedi o su improbabili veicoli a due o
quattro ruote costituite da cuscinetti a sfera chiesti o rubacchiati da qualche officina.
Ma
quello che affascinava e intrigava più di ogni altra cosa era la trasgressione
che, all’epoca, era rappresentata dal superamento di quel confine non visibile
e di difficile lettura nella zona in cui la campagna tentava di resistere
all’avanzare disordinato della città e che ci faceva tuffare in un mare d’erba,
di campi coltivati, di fossi, canneti e ruderi, all’insaputa delle nostre apprensive ma severe e spietate mamme.
Era la nostra Amazzonia in cui andare a sfidare draghi e mostri immaginari,
nella realtà lucertole, ramarri e qualche rara biscia.
In
quell’estate e in quell’ambiente avvennero due miracoli e tutti e due
riguardavano Luciano. Al contatto con alberi, cespugli, uccelli, rettili e
anfibi ebbe una metamorfosi e, da ragazzo timido e impacciato si trasformò in un
saettante ed esperto abitante della foresta, di cui avvertiva prima e più degli
altri profumi e segni che a noi, invece, non
raccontavano nulla. Lui pareva parlare col vento, annusava l’aria,
strappava foglie, erbe e le assaggiava
alla ricerca,
forse, dei sapori e profumi dei pascoli delle sue montagne.
Con
un cenno della mano, a volte, ci zittiva mentre si immobilizzava nei pressi di
qualche segno che solo lui sapeva leggere e che si dimostrava essere il nido di
un’allodola o di una quaglia, che noi, nella nostra scarsa attenzione, avremmo
sicuramente distrutto calpestandolo. Ci fece vedere come catturare le trote con
le mani, anche se la nostra marrana non somigliava molto ad un torrente montano e le prede erano rovelle, cavedanelli
e qualche piccola anguilla.
L’altro
miracolo avvenne quando scoprì che negli stessi prati, teatro delle nostre
scorribande passava una linea ferroviaria e rimanemmo tutti stupiti quando la
prima volta che vide passare un treno che sferragliando fischiava: Tuuu Tuuu…”, Luciano si lanciò all’inseguimento
e affiancandolo sembrava tentare di superarlo e urlanva: ”Il treno, il treno, il treno…..”, catapultato in una trance
parossistica che non avevamo mai avuto modo di notare in nessun’’altra
occasione. Quel pomeriggio la cosa si ripetè più volte ad ogni passaggio del treno,
ma ogni volta in maniera più tranquilla anche se sempre in preda a un forte terremoto
emotivo.
Sulla
strada del ritorno all’imbrunire parlò, in maniera del tutto inaspettata, ‘chè
noi non gli avremmo chiesto nulla conoscendo il suo carattere schivo e
soprattutto perché ci aveva sorpreso e persino intimoriti con quell’esplosione
improvvisa di delirio feticistico nei confronti dei treni.
Ci
disse “Io non ho mai visto un treno. Al
mio paese non ci passano. Anche quando sono venuto a Roma abbiamo preso la
corriera. Quanto mi piacerebbe un giorno, poterci salire e fare un viaggio “.”Dove
vorresti andare”. “Ovunque, l’importante è prendere un treno Tuuu Tuuuu…ciao.
Domani ci torniamo.”.
E
ci tornammo più e più volte, si divideva il tempo tra le corse nei prati, la
cattura di qualche tritone nei fossi, l’inseguimento di una farfalla più bella
delle altre e gli inseguimenti di Luciano ai treni
I
macchinisti di quei treni si abituarono ben presto alla presenza di
quel ragazzino magro che li rincorreva e, quando si avvicinavano al nostro
prato, cominciavano a fischiare sin da lontano a mò di saluto sempre più forte
e addirittura qualcuno rallentava e si sporgeva dal finestrino per salutarlo. “Un giorno, voglio portare anch’io
il treno”- “ Non sono scemo come dice il maestro”. “Ciao treno aspettami!
Crescerò alla svelta… Tuuuu…Tuuu…”
Un
giorno al solito posto a perdere tempo nell’unico modo che ci paresse valido: accompagnare Luciano ad aspettare treno e vederlo correre e sognare era uno
spettacolo che non ci saremmo persi per nessuna cosa al mondo.
Avevo
già detto della ritrosia di Luciano a mostrarsi agli altri nel momento dei
liquidi bisogni e, in genere, se la tratteneva per tutto il giorno riportandola
fino a casa, contorcendosi per lo sforzo.
Quel
giorno, evidentemente, lo sforzo, magari grazie anche a qualche bevuta di troppo, era
superiore alle sue forze, e, alla fine si arrese. “Devo pisciare”- “Che ci
frega! Falla!”- “Si, ma non qui. Vado a farla là dentro” e indicò con un gesto
della mano una breve galleria con cui il treno passava sotto alcune strade e
case. Luogo che avevamo sempre accuratamente evitato perché sporco e troppo
buio.
“Aspettatemi,
torno subito”- “ Si ma sta attento che qualche topo non te lo mangi! Ah ah ah” -
“..fanculo”
Mentre
aspettavamo sentimmo lo sferragliare del treno che arrivava e i fischi che i macchinisti, ormai abitualmente, emettevano Tuuu…Tuuu….
“Luciano, sbrigati esci sta arrivando il
treno!” – “Lucianooo!” - "Lucianoooooooo"
Il
nostro grido venne coperto dal rumore del treno che si infilava nella galleria.
“Luciano!!”.
Si
udì uno stridore di freni , il treno pareva agonizzasse mentre tentava di
fermare la sua corsa. Poi un breve silenzio e, dopo quakche secondo interminabile, dall’altra parte della galleria urla,
bestemmie: “ Chi era?” – “ Madonna! Un ragazzino!” – “E’ vivo?” –“Mi pare di no!" "Oddio….Oddio!”
Noi
lo vedemmo da lontano, lo riconoscemmo dalla maglia a righe, era a terra vicino
l’ultima carrozza del treno, sembrava un manichino. Non avemmo il coraggio di
avvicinarci e vedere se avesse, almeno avuto il tempo di ricomporsi. Speriamo di
si, senno chissà come si stava vergognando in quel momento.
Da
quel giorno, in quell’estate, le nostre
scorribande nei prati furono sempre più
rare, e, quasi sempre, solo per guardare i treni che passavano e gridare : "Ciao
Lucianooooo!!!!! Tuuuu Tuuuu….”.
MIZIOI
Nessun commento:
Posta un commento