venerdì 1 marzo 2013

LE STORIE DEGLI SPAZI BIANCHI: “LUCIANO CHE NON AVEVA MAI PRESO IL TRENO”


"Spesso ci sono più cose negli spazi bianchi tra le righe, che nelle parole".


Era arrivato dall’Abruzzo da poco per seguire i suoi genitori alla ricerca della possibilità di pagare i sogni non solo con la fatica.
Era magro e lungo come la sua malinconia, parlava poco e quasi sempre in dialetto, che, comunque capivamo perfettamente avendo già altri piccoli amici provenienti da quel paesino tra i monti della Marsica  I loro racconti a noi  ragazzi di periferia avevano fatto assumere ai monti e alle valli del Sangro lo stesso fascino dell’India misteriosa dei racconti salgariani.
Storie di lupi e camosci, di vipere, trote e libertà… tanta libertà.
Forse era per questo che i suoi occhi. al solo ricordo del borgo natio, si coloravano dello stesso blu dei cieli d’Abruzzo e si velavano  al pari della foschia mattutina.
Nonostante la sua aria malinconica era, comunque, simpatico e ben accetto da tutti, anche se non eccelleva in alcuna di quelle attività  capaci di dare prestigio ai piccoli ma già competitivi bambini. Non correva forte, non sapeva giocare bene al calcio, si vergognava a fare alcune delle tipiche, ingenue gare tra piccoli maschi come quella di chi piscia più lontano. In verità non che anche io le amassi molto, ma riuscivo a dissimulare meglio di lui il mio disagio. Tanto sapevo sarebbe finito tutto in una irrefrenabile e liberatoria risata.
I nomi tipicamente abruzzesi; Cesidio, Tonio, Sabatino erano ormai perfettamente integrati e accettati dagli Adolfo, Mauro, Carlo rappresentanti tipici, invece, della borgatara periferia cittadina.
A scuola l’avevano messo in una classe differenziata, viste le sue difficoltà di comunicare con modi, a detta dei suoi insegnanti ,scorretti e  non rispondenti alle  norme e ai regolamenti  ministeriali dell’epoca. Non era ancora previsto l’insegnante di sostegno e l’inserimento dei piccoli con difficoltà era visto come una mera perdita di tempo.- “Tanto andrà a fare l’operaio come il padre. Non gli servirà studiare.”
Arrivò l’estate e con essa la conquista piena del proprio tempo, tra interminabili partite a pallone sulla strada, interrotte spesso per consentire il passaggio di qualche rara automobile, le corse a piedi o su improbabili veicoli a due o quattro ruote costituite da cuscinetti a sfera chiesti o rubacchiati da qualche officina.
Ma quello che affascinava e intrigava più di ogni altra cosa era la trasgressione che, all’epoca, era rappresentata dal superamento di quel confine non visibile e di difficile lettura nella zona in cui la campagna tentava di resistere all’avanzare disordinato della città e che ci faceva tuffare in un mare d’erba, di campi coltivati, di fossi, canneti e ruderi, all’insaputa delle nostre apprensive ma severe e spietate mamme. 
Era la nostra Amazzonia in cui andare a sfidare draghi e mostri immaginari, nella realtà lucertole, ramarri e qualche rara biscia.
In quell’estate e in quell’ambiente avvennero due miracoli e tutti e due riguardavano Luciano. Al contatto con alberi, cespugli, uccelli, rettili e anfibi ebbe una metamorfosi e, da ragazzo timido e impacciato si trasformò in un saettante ed esperto abitante della foresta, di cui avvertiva prima e più degli altri profumi e segni che a noi, invece,  non raccontavano nulla. Lui pareva parlare col vento, annusava l’aria, strappava foglie, erbe e le assaggiava   alla ricerca,
forse, dei sapori e profumi dei pascoli delle sue montagne.
Con un cenno della mano, a volte, ci zittiva mentre si immobilizzava nei pressi di qualche segno che solo lui sapeva leggere e che si dimostrava essere il nido di un’allodola o di una quaglia, che noi, nella nostra scarsa attenzione, avremmo sicuramente distrutto calpestandolo. Ci fece vedere come catturare le trote con le mani,  anche se la nostra marrana non somigliava molto ad un torrente montano e le prede erano rovelle, cavedanelli e qualche piccola anguilla.
L’altro miracolo avvenne quando scoprì che negli stessi prati, teatro delle nostre scorribande passava una linea ferroviaria e rimanemmo tutti stupiti quando la prima volta che vide passare un treno che  sferragliando  fischiava: Tuuu Tuuu…”, Luciano si lanciò all’inseguimento e  affiancandolo sembrava  tentare di superarlo e urlanva: ”Il treno, il treno, il treno…..”, catapultato in una trance parossistica che non avevamo mai avuto modo di notare in nessun’’altra occasione. Quel pomeriggio la cosa si ripetè più volte ad ogni passaggio del treno, ma ogni volta in maniera più tranquilla anche se sempre in preda a un forte terremoto emotivo.
Sulla strada del ritorno all’imbrunire parlò, in maniera del tutto inaspettata, ‘chè noi non gli avremmo chiesto nulla conoscendo il suo carattere schivo e soprattutto perché ci aveva sorpreso e persino intimoriti con quell’esplosione improvvisa di delirio feticistico nei confronti dei treni.
Ci disse  “Io non ho mai visto un treno. Al mio paese non ci passano. Anche quando sono venuto a Roma abbiamo preso la corriera. Quanto mi piacerebbe un giorno, poterci salire e fare un viaggio “.”Dove vorresti andare”. “Ovunque, l’importante è prendere un treno Tuuu Tuuuu…ciao. Domani ci torniamo.”.
E ci tornammo più e più volte, si divideva il tempo tra le corse nei prati, la cattura di qualche tritone nei fossi, l’inseguimento di una farfalla più bella delle altre e gli inseguimenti di Luciano ai treni
I macchinisti di quei treni  si abituarono ben presto  alla presenza di quel ragazzino magro che li rincorreva e, quando si avvicinavano al nostro prato, cominciavano a fischiare sin da lontano a mò di saluto sempre più forte e addirittura qualcuno rallentava e si sporgeva dal finestrino  per salutarlo. “Un giorno, voglio portare anch’io il treno”- “ Non sono scemo come dice il maestro”. “Ciao treno aspettami! Crescerò alla svelta… Tuuuu…Tuuu…”
Un giorno al solito posto a perdere tempo nell’unico modo che ci paresse valido: accompagnare Luciano ad aspettare treno e vederlo correre e sognare era uno spettacolo che non ci saremmo persi per nessuna cosa al mondo.
Avevo già detto della ritrosia di Luciano a mostrarsi agli altri nel momento dei liquidi bisogni e, in genere, se la tratteneva per tutto il giorno riportandola fino a casa, contorcendosi per lo sforzo.
Quel giorno, evidentemente, lo sforzo, magari grazie anche a qualche bevuta di troppo, era superiore alle sue forze, e, alla fine si arrese. “Devo pisciare”- “Che ci frega! Falla!”- “Si, ma non qui. Vado a farla là dentro” e indicò con un gesto della mano una breve galleria con  cui il treno passava sotto alcune strade e case. Luogo che avevamo sempre accuratamente evitato perché sporco e troppo buio.
“Aspettatemi, torno subito”- “ Si ma sta attento che qualche topo non te lo mangi! Ah ah ah” - “..fanculo”
Mentre aspettavamo sentimmo lo sferragliare del treno che arrivava e i fischi che i macchinisti, ormai abitualmente, emettevano Tuuu…Tuuu….
 “Luciano, sbrigati esci sta arrivando il treno!” – “Lucianooo!” - "Lucianoooooooo"
Il nostro grido venne coperto dal rumore del treno che si infilava nella galleria. 
“Luciano!!”.
Si udì uno stridore di freni , il treno pareva agonizzasse mentre tentava di fermare la sua corsa. Poi un breve silenzio e, dopo quakche secondo interminabile, dall’altra parte della galleria urla, bestemmie: “ Chi era?” – “ Madonna! Un ragazzino!” – “E’ vivo?” –“Mi pare di no!" "Oddio….Oddio!”
Noi lo vedemmo da lontano, lo riconoscemmo dalla maglia a righe, era a terra vicino l’ultima carrozza del treno, sembrava un manichino. Non avemmo il coraggio di avvicinarci e vedere se avesse, almeno avuto il tempo di ricomporsi. Speriamo di si, senno chissà come si stava vergognando in quel momento.
Da quel giorno, in quell’estate,  le nostre scorribande nei prati  furono sempre più rare, e, quasi sempre, solo per  guardare i treni che passavano e gridare : "Ciao Lucianooooo!!!!! Tuuuu Tuuuu….”.

MIZIOI

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