L'esito
delle elezioni ha creato una irreversibile instabilità del sistema politico
italiano, ma sta anche facendo prendere coscienza a molti che siamo ormai alla
vigilia di un "cambio di paradigma". Il sistema politico che ha retto
le sorti del Paese negli ultimi vent'anni, ma soprattutto l'assetto economico
che lo ha forgiato e foraggiato, non reggono più. Il successo di Grillo non ne
è che un segnale.
Questo
assetto, espressione e referente del cosiddetto "pensiero unico", è
il combinato disposto di vari fattori.
Globalizzazione,
delocalizzazione delle produzioni, precarizzazione del lavoro, diseguaglianze
crescenti, finanziarizzazione del comando capitalistico, debito pubblico e
privato come strumento di imbrigliamento della società, della politica e del
lavoro, guerre, crisi e insicurezza come condizione umana permanente. È il
paradigma che si è andato affermando nell'ultimo quarto del secolo scorso a
spese di quello che era stato in vigore prima, nei cosiddetti "trent'anni
gloriosi" (1945-75) senza che per molto tempo quel passaggio venisse
avvertito in tutta la sua portata. Perché fino a quarant'anni fa i meccanismi
portanti dell'accumulazione del capitale erano stati il mito dello sviluppo
economico (sia nei paesi già "sviluppati" che in quelli "in via
di sviluppo") e la crescita di salari, consumi e welfare: una sintesi di
fordismo e politiche keynesiane governata con la continua espansione della spesa
pubblica e l'intervento dello Stato nell'economia. Anche quel paradigma aveva
comunque concluso il suo corso perché non reggeva più: a metterlo alle strette
erano state le aspettative di uguaglianza, di autonomia, di democrazia, di
libertà delle nuove generazioni (non a caso si era parlato allora addirittura
dei "giovani come classe"): i movimenti studenteschi del '68, la
rivolta antimilitarista contro la guerra in Vietnam, la discesa in campo, in
molti paesi, di una classe operaia giovane, spesso immigrata, ancora in gran
parte concentrata in grandi stabilimenti industriali; e poi, al loro seguito,
una pletora di "categorie" sociali - dai ricercatori ai giornalisti e
agli insegnanti, dai poliziotti ai magistrati, dai disoccupati "organizzati"
ai baraccati - che aveva messo in moto, senza portarla a termine, quella «lunga
marcia attraverso le istituzioni» preconizzata da Rudi Dutschke.
Adesso
un nuovo cambio di paradigma, e ben più radicale e traumatico, è di nuovo
all'ordine del giorno; non è ancora il contenuto esplicito di un conflitto
aperto, ma cova sotto traccia da parecchi anni. C'è chi sostiene che la
soluzione alla crisi in corso sia il ritorno al paradigma di un tempo: più
Stato e meno mercato, più spesa pubblica per rilanciare redditi e consumi, più
Grandi Opere e incentivi alle imprese per creare occupazione. Ma bastano
ricette del genere per far fronte alla crisi?
No.
Le condizioni che presiedevano al modello dei "trenta gloriosi" non
ci sono più. Il mondo si è "globalizzato": lo hanno reso tale non
solo la "libera circolazione" dei capitali (che certamente va
bloccata) e l'enorme viavai di merci generato da una divisione del lavoro
estesa su scala planetaria (che va drasticamente ridotto). Ma anche internet -
una grande risorsa per tutti - la diffusione dell'istruzione, e l'accesso
all'informazione, in tutti i paesi e i giganteschi flussi migratori che
attraversano il mondo intero, che sono invece fenomeni irreversibili. Tuttavia
l'orizzonte esistenziale della nostra epoca è ormai occupato - la si voglia
vedere o no - dalla crisi ambientale che incombe tanto su tutto il pianeta
quanto, in forme specifiche e differenti, su ogni sua singola porzione.
Crescita e sviluppo - pur con tutte le qualificazioni del caso - sono ormai
ritornelli ricorrenti ma privi di senso perché la crisi ambientale sbarra la
strada a ogni espansione economica che non sia anche e soprattutto
devastazione.
Bisogna
allora rivedere alle radici gli assetti che ci hanno portato sull'orlo della
catastrofe. La finanziarizzazione, da tutti individuata come causa principale
della crisi (anche se i più affidano ad essa anche la ricerca delle soluzioni
per uscirne) non è che il compimento parossistico di un processo iniziato oltre
due secoli fa con quella che Karl Polanyi aveva chiamato «la grande
trasformazione»: la riduzione a merci di tre cose che merci non possono essere,
pena la distruzione della vita associata (e, oggi possiamo dirlo, anche del
nostro rapporto con Madre Terra). Quelle tre "cose" che continuano a
rivoltarsi contro la loro riduzione a merci (Polanyi le chiamava «merci
fittizie») sono il lavoro, la terra e il denaro. La lotta dei lavoratori contro
la propria mercificazione non ha bisogno di illustrazioni, perché è la storia
stessa del movimento operaio nelle sue più diverse espressioni.
L'appropriazione delle terre (enclosure, ai tempi di Elisabetta I e
landgrabbing oggi) è stata ed è la base di quell'«accumulazione primitiva» che
per il capitale non è un processo iniziale, ma permanente. Però oggi è tutta la
Terra, intesa come ambiente (aria, acqua, suolo ed energia), a essere oggetto
di compravendita sotto forma di green-economy: un valido motivo per
contrastarla nei suoi presupposti, perché è l'esatto opposto di una vera
conversione ecologica. Quanto al denaro, delle sue tre funzioni fondamentali -
misura del valore, mezzo di scambio e oggetto di accumulazione - la
finanziarizzazione non è che il definitivo sopravvento della terza funzione
sulle altre due: il prezzo delle merci è ormai determinato dalle speculazioni su
di esse più che dal valore o dal contributo degli input produttivi e gli scambi
- il nostro accesso ai beni e ai servizi in commercio - sono sempre più mediati
da qualche forma di debito, che è lo strumento fondamentale della
finanziarizzazione. La crisi in corso non è altro che questo. Perciò, anche se
non abbiamo un modello preciso a cui ispirarci, sappiamo che l'uscita dalla
crisi dovrà necessariamente incorporare forme nuove di controllo sociale sul
lavoro, sui beni comuni e sul credito (l'attività delle banche; perché denaro e
credito sono in gran parte la stessa cosa). Non sarà una passeggiata, ma un
conflitto lungo e aspro, che solo una profonda consapevolezza che «ritirarsi è
peggio» potrà alimentare. Sapendo però che il nuovo paradigma dovrà convivere
ancora a lungo con forme, ancorché depotenziate, di economia del debito; così
come la democrazia partecipativa non potrà - né dovrà - fare a meno di quella
rappresentativa, e di quel sistema politico degradato che la sorregge ormai in
tutto il mondo.
Il
nuovo paradigma che può e deve prendere il posto di quello fallimentare imposto
dal pensiero unico liberista è la sostenibilità ambientale. La si chiami
decrescita, conversione ecologica, giustizia sociale e ambientale o economia
dei beni comuni (senza pretendere di annullare le differenze tra questi
approcci) è l'unica soluzione che può garantire equità nella distribuzione
delle risorse, salvaguardia degli equilibri ecologici e recupero del know-how,
del patrimonio impiantistico e dell'occupazione che il sistema economico
attuale sta mandando in malora: una fabbrica dopo l'altra, un paese dopo
l'altro.
La
transizione a questo nuovo paradigma non può essere governata dall'alto o da un
"centro" - come è il caso, invece, nella maggior parte delle
politiche neokeynesiane - perché si fonda su diffusione, ridimensionamento,
differenziazione e interconnessione orizzontale sia degli impianti produttivi
che degli interventi: si pensi alla vera vocazione delle fonti rinnovabili (per
essere efficienti devono essere piccole, differenziate e distribuite e non
concentrate come si fa ancora troppo spesso), all'efficienza energetica,
all'agricoltura multifunzionale e a km0, alla gestione dei rifiuti, alla
mobilità flessibile, alla salvaguardia degli assetti idrogeologici, ecc. Quel
nuovo paradigma è intrinsecamente democratico e indissolubilmente legato a uno
sviluppo della partecipazione, perché non può affermarsi senza il concorso dei
saperi diffusi presenti sul territorio e l'iniziativa dei lavoratori e delle
comunità interessate; il che impone agli asset sottoposti alla transizione il
connotato di "beni comuni" .
L'altro
requisito irrinunciabile del nuovo paradigma è la ri-territorializzazione (o
ri-localizzazione) di molte attività produttive. Gli effetti nefasti della
globalizzazione non si combattono con il protezionismo (fermare le merci ai
confini preclude la possibilità di esportarne altre: quelle necessarie a pagare
ciò che un singolo Paese o anche un singolo continente non potrà mai produrre);
e meno che mai con il ritorno alle valute nazionali. Non è l'euro - che è
"solo" una moneta - la causa degli squilibri crescenti che investono
l'Europa; bensì il modo in cui l'euro è governato: cioè i limiti, che le altre
valute mondiali non conoscono, imposti alla sua gestione per trasferire meglio
all'alta finanza il comando sulle politiche economiche nazionali e per portare
avanti l'attacco a occupazione, salari e welfare. La ri-territorializzazione si
realizza invece promuovendo controllo sociale sui processi produttivi; e
innanzitutto sui servizi pubblici locali (energia, ristorazione pubblica,
gestione dei rifiuti, mobilità, servizi idrici, ecc.) e combattendone la
privatizzazione. Convertiti in "beni comuni" gestiti in forma
partecipata, i servizi pubblici locali possono diventare il punto di raccordo
tra la promozione di una domanda finale ecologicamente sostenibile e l'offerta
di impianti, materiali, attrezzature e know-how necessari per soddisfarla. Per
esempio, raccordo tra diffusione delle fonti rinnovabili e dell'efficienza
energetica e imprese riconvertite alla produzione degli impianti e dei
materiali corrispondenti. O tra approvvigionamento di cibi sani e a km0 per le
mense pubbliche e per tutti coloro che lo desiderino e un'agricoltura ecologica
di prossimità; e così per la mobilità, l'edilizia, la gestione dei rifiuti,
ecc. Certo garantire l'incontro tra domanda e offerta richiede accordi di
programma di cui possono farsi carico solo i governi locali che assumono su di
sé la responsabilità della transizione. Accordi che certo limitano la
concorrenza - ma non il funzionamento dei mercati - nelle forme propugnate dal
pensiero unico e dall'establishment. Ma sono accordi fattibili, persino
compatibili, in nome della salvaguardia dell'ambiente, con la normativa dell'Ue;
e che in alcuni casi vengono già praticati. E' la strada che occorre
percorrere.
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