Occorre
sopprimere il liberale che è in noi. Perché usurpa il significato etimologico
di “libertà”, ed è la migliore maschera della dittatura vigente: il capitalismo
totalitario. Libero, oggi, è solo chi ha un dato potere d’acquisto. Nemmeno più
il ricco di una volta, col conto in banca pieno: adesso è ricco chi può muovere
capitali non suoi. È l’economia finanziaria, bellezza. Fondata sulla liquidità
evanescente. Cioè sul nulla.
Popper
aveva torto marcio. Quanto è aperta, di grazia, la popperiana “società aperta”?
A me sembra di vivere in una società paurosa, paranoica, ossessiva.
Prendiamo
la crociata salutista contro il fumo, per esempio. Il liberalismo imperante
permette che il fumatore venga trattato come un lebbroso, un appestato sociale,
confinato in appositi ghetti, senza più nemmeno il diritto ad uno
scompartimento tutto per lui sui vagoni ferroviari. Ci si incattivisce sui vizi
individuali e si è oltraggiosamente permissivisti con le malattie collettive
(smog, scorie industriali, inceneritori, schifezze negli alimenti, cocaina che
scorre a fiumi nei festini dei benpensanti). Le multinazionali del tabacco
fanno miliardi a palate con la loro droga legale. Eppure io, persona con una
testa, dovrei essere libero di decidere se assumere o no tale robaccia, perché
lo Stato, questa glaciale astrazione, non può disporre del mio corpo. Anche
perché si tratta di quello stesso, benevolo Stato che, a parte qualche ipocrita
campagna pubblicitaria, non muove un dito se aspiro le esalazioni delle
fabbriche e i gas di scarico delle auto appena metto il naso fuori di casa o se
mangio cibi trattati (cioè quasi tutti) regolarmente acquistati al
supermercato, e che mi vuole convincere a inalarmi vaccini inventati apposta
contro montatissime influenze pseudo-mortali.
La
libertà individuale è poter fare ciò che vuoi senza danneggiare un bene di
tutti. Ma neppure l’autorità pubblica può immischiarsi in ciò che posso
decidere io e soltanto io. È una sana non-interferenza. Prima
dell’industrialismo e della sua smania borghese di regole, l’individuo subiva
molte meno interferenze nella propria vita privata di quante ne subisce oggi.
Il contadino pre-moderno poteva passarsela parecchio male per ragioni
economiche, perché magari il raccolto dell’annata era andato male, ma anche
quando era un servo della gleba i suoi obblighi si limitavano alle corvées e
alla decima, per il resto viveva sul suo senza obblighi di sorta che non fosse
il legame ereditario alla sua terra. Ma se voleva costruirsi con le sue mani un
altro pezzo di casa poteva farlo tranquillamente, mentre noi oggi dobbiamo
compilare una decina di moduli e chiedere il permesso a una mezza dozzina di
uffici pubblici. Certo, allora non c’era l’urbanizzazione selvaggia, ma
l’esempio vale per illuminare una differenza capitale: la libertà non va
confusa con la possibilità astrattamente illimitata. Una libertà è tale nel
momento in cui, se voglio, posso goderne. Adesso, nella democrazia che si
proclama liberale, sono libero ma solo all’interno di tante e tali regole che,
di fatto, non sono più libero. Ci muoviamo ostacolati da un intrico di divieti,
scritti e non scritti, che farebbero inorridire anche il più miserabile dei
nostri antenati antichi o medievali. Possiamo circolare ma dall’ora x all’ora
y, nel posto tale e non in un altro, stando attenti che non ci sia qualche
cartello che vieti di mangiare, di bere o di cucinare in luogo aperto, se
abbiamo 18 anni o se la nostra patente ne ha già compiuti cinque. Possiamo dire
quello che vogliamo ma a patto di non offendere la sensibilità di ebrei,
musulmani, gay, neri, cattolici, donne, animali, bambini, minoranze etniche e
memorie sacre del passato (solo alcune, beninteso, quelle funzionali al
potere). Possiamo manifestare su piazza, ma se il questore è d’accordo.
Possiamo scrivere su un giornale, ma solo se è riconosciuto dall’Ordine e dal
Tribunale (benedetta sia l’anarchia di Internet, finché dura). Possiamo aprire
un’azienda, ma solo dopo aver fatto una trafila di permessi da far venire i
capelli bianchi. Possiamo pisciare all’aperto? No, perché si configura come
atto osceno in luogo pubblico. Non si può più nemmeno farsi una pisciata in
santa pace.
Ebbene,
se fossi stato un servo della gleba potevo fare il cazzo che mi pareva a patto
di non insultare il Re e la Chiesa e non fomentare rivolte. Oggi, che sono il
cittadino di uno Stato liberal-democratico, continuo a non poter insultare chi
voglio (pena la denuncia per ingiuria o diffamazione) e a non poter minacciare
l’ordine costituito, ma per soprammercato sono impigliato in una rete di
impedimenti sempre più dettagliati, minuziosi, patetici. “Ah, ma sei libero di
criticare, c’è la libertà di pensiero” – ribatte la belante pecora liberale.
Tanto per cominciare, se per caso non ti dichiari anche tu liberale e,
sfrontato che non sei altro, osi pure criticare il sistema liberale in cui
vivi, sei out, diventi un essere inferiore, rischi seriamente l’emarginazione
sociale. Esprimere pubblicamente fedeltà al partito unico liberale equivale ad
avere in tasca la tessera del Pnf sotto il fascismo: senza, ad esempio se vuoi
fare il giornalista pagato decentemente, non lavori. Ma poi, andiamola ad
analizzare questa famosa libertà di critica. Se critichi gli Stati Uniti, ti
vomitano addosso l’accusa di anti-americanismo e sei cacciato fuori dall’agorà
delle opinioni politicamente corrette. Se critichi il Papa commetti reato di
bestemmia e ti espellono nelle catacombe delle idee impronunciabili. Se
critichi il dogma dello sviluppo economico, ti danno del retrogrado reazionario
e anche qui il tuo destino è la clandestinità. Se critichi il modello di vita
consumista, ti danno del sognatore visionario e se ti va bene ti dicono di sì
come si dice sì ai matti.
Se
dici che questa non è libertà ma conformismo, ti considerano un pazzo
estremista, un potenziale eversore, un nemico della democrazia. Io invece
affermo che la democrazia liberale è il regime più liberticida che esista,
perché ti concede una libertà teorica che poi svuota con una serie di
limitazioni, tabù, muri e ganasce che alla fine, in mano, te ne resta una:
comprare, fare shopping. Il fatto è che il consumo dipende dal reddito, cioè da
quanti soldi uno possiede. E allora la libertà svanisce, è una bella parola
vuota, una presa in giro. I poveri, certo, ci sono sempre stati. Ma almeno un
tempo lo Stato se ne strafotteva delle loro abitudini private come di quelle di
chiunque. Oggi invece se sei povero, e la soglia di povertà si sta espandendo a
vista d’occhio, non puoi nemmeno più darlo a vedere, non puoi avere idee
anti-sistema, se ti incazzi e scendi in strada a cantargliene quattro la tua
protesta diventa automaticamente “violenta” e perciò non conta. Se ti
imbestialisci contro contratti da fame e a scadenza ti dicono che non sei
moderno, e se ti riduci a mendicare ti fanno pure la multa e ti spazzano più in
là, perché sei brutto da vedere - uno scarafaggio kafkiano che può andare in
malora. Altro che il paradiso terrestre dei liberali. I maledetti liberali.
Alessio
Mannino
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