sabato 30 marzo 2013
CONQUISTATA LA NATURA.... ABBIAMO PERSO
La
casalinga londinese Barbara Carter aveva vinto la gara di beneficienza “Regala
un desiderio” e aveva chiesto di poter baciare e coccolare un leone. Il
mercoledì sera successivo era in ospedale in stato di choc e con evidenti
ferite alla gola. La signora Carter, 46 anni, era stata portata al recinto dei
leoni nel Safari Park a Bewdley. Mentre si sporgeva per accarezzare una
leonessa, Suki, questa le si è avventata contro e l’ha atterrata. Più tardi i
guardiani del parco hanno detto “Abbiamo commesso una grave errore di
valutazione”. (British news bulletin – 1976).
Avendo
già commesso un simile errore con un koala australiano, so bene che si tratta
di quello che i libri di testo definiscono la mancata comprensione della
distinzione tra un animale in quanto agente naturale e un animale in quanto
simbolo di cultura. Si presupponeva che il koala fosse tenero, mite e
rassicurante. Di questo mi sentivo certo, perché si trattava della stessa
creatura che per due settimane avevo presentato, nella primavera del 1959, ai
lettori del San Francisco Examiner, prima che il Governo Australiano concedesse
il suo trasferimento allo Zoo Fleishacker.
L’Examiner
era una pubblicazione Hearst, l’editore non era il tipo da farsi sfuggire un
pezzo sentimentale così accattivante; io avevo il compito del reporter che
anticipava l’argomento per assicurarne il successo. Non sapendo molto di
animali o quasi niente, tranne ciò che avevo letto nei libri da bambini e
appreso attraverso i cartoni di Walt Disney, consultai l’Encyclopedia
Britannica (Phascolarctos cinereus, pelliccia color cenere, animale notturno,
ghiotto di foglie di eucalipto), ma per lo più mi basai su Winnie-the-Pooh di
A.A.Milne, I Racconti del Coniglio Brer e su immagini di repertorio del
Presidente Teddy Roosevelt, al cui nome s’ispirò nel 1903 un creatore di
giocattoli di Brooklyn per creare ed imbottire il famoso orsacchiotto.
Fedele,
benevolo e saggio, il koala che veniva dagli antipodi era il piccolo amico di
tutto il mondo. Il giorno del suo arrivo all’aeroporto, io portai un mazzo di
rose avvolte in fogli di giornale. L’editore aveva imparato il mestiere a
Hollywood negli anni ’40 e aveva in mente una foto di me che abbracciavo
teneramente l’orsetto per dargli un caldo benvenuto. “Un cucciolo smarrito
trovato nella foresta”, quello era il titolo che aveva in mente. “Torna a casa
Lassie”. Ma il koala non seguì il copione. Infastidito dai flash dei fotografi,
si aggrappò violentemente alla mia testa e alle mie spalle, distrusse le rose e
urinò sui miei pantaloni e sulle mie scarpe.
Tuttavia,
l’inconveniente non apparve sulla stampa. La fotografia era stata scattata
prima dell’imprevisto. E così, il giorno dopo, sui giornali, eccoci là, io e il
koala, l’uomo e la bestia, felici di essere insieme…il Christopher Robin del
San Francisco Examiner incorniciato in un quadretto accanto al Coniglio Brer, a
Teddy Roosevelt e a Winnie-the-Pooh, tutti per uno uno per tutti, nel nostro
piccolo angolo di Paradiso.
LA
PANTOMIMA DI BESTIA
Voci
e notizie sui rapporti tra uomo e animali le troviamo nelle storie più antiche
del mondo, nelle stelle dello zodiaco, raffigurate nelle caverne preistoriche,
tra i geroglifici delle antiche scritture egizie, nella filosofia greca, nella
religione induista, nell’arte cristiana, nel nostro stesso DNA. Parti
integranti della vita quotidiana dell’uomo fino verso la fine del 20° secolo,
gli animali sono stati allo stesso tempo agenti naturali e simboli di cultura.
Compagni fedeli e silenziosi, hanno donato tutta la loro energia sia come
strumenti di lavoro sia come cibo arrostito, pur possedendo qualità e virtù
molto simili a quelle dell’uomo.
Nell’impossibilità
di dare lezioni pubbliche, il leone e l’elefante hanno insegnato con l’esempio;
lo stesso hanno fatto la tartaruga, il lupo e la formica (le favole di Esopo,
composte nel sesto secolo prima di Cristo); e in seguito nelle ricerche di
Aristotele, 200 anni dopo, con la sua Storia degli Animali, fu chiaramente
delineato il quadro epistemologico che, per i successivi due millenni, avrebbe
inglobato la presenza degli animali al centro del cerchio di quella che
definiamo la civiltà occidentale:
"Così
come evidenziamo somiglianze negli organi fisici, allo stesso modo in alcuni
animali osserviamo gentilezza o fierezza, mitezza o cambiamenti umorali,
coraggio o timidezza, paura o sicurezza, acume o poca astuzia. Altre qualità
dell’uomo le troviamo negli animali in forma analoga, non proprio identica; ad
esempio, così come in un uomo possiamo rilevare conoscenza, saggezza e
intelligenza, allo stesso mondo in alcuni animali troviamo altre naturali
potenzialità simili a quelle".
Gente
di altre parti del mondo hanno sviluppato diversi tipi di relazioni con
animali, venerandoli come fossero dei; ma sulla scena europea gli animali sono
stati un grande insegnamento di scienza naturale e politica. Più si comprendevano
le loro “qualità analoghe e non identiche” a quelle dell’uomo, più fantastiche
esse divenivano.
L’apicoltura
praticata da Virgilio sui suoi terreni nel 30 a.C. lo portò ad ammirare, nel
libro quarto delle Georgiche, la loro ottima etica di lavoro – “All’alba si
riversano fuori dalle arnie, senza indugiare” ammirando così il loro senso del
bene comune – “condividono un’unica casa nella loro “città”/vivendo in modo
altamente rigoroso scandito da leggi ferree”- lodandone la loro castità -
"Non si attardano nella copulazioni e non indulgono sul proprio corpo in
maniera erotica”.
Gli
studi di Plinio il Vecchio del primo secolo dimostrarono, con sua grande
soddisfazione, che le meraviglie del mondo animale erano tali che l’uomo, al
loro confronto, “niente sa e niente riesce a imparare a meno che non gli venga
insegnato: non potrebbe camminare, o parlare, o mangiare, o qualsiasi altra
cosa a meno che non lo impari dalla natura; potrebbe solo piangere”.
All’approccio
scientifico nell’osservazione degli animali adottato dai poeti e filosofi
Greco-Romani, la Cristianità medievale aggiunse la dimensione fantastica – non
ci si poteva fidare di nessun elemento naturale a meno che non fosse stato
battezzato con un simbolo o imbrigliato in un’allegoria. Nelle pagine illuminate
delle bibbie del decimo secolo e nei rosoni delle cattedrali gotiche, l’ape
divenne il simbolo della speranza, il gallo e la capra un simbolo di Satana, la
mosca indicava la lussuria, l’agnello e la colomba impersonavano alternatamente
la figura di Cristo. Invece di sottolineare gli straordinari talenti di alcuni
animali, i religiosi davano forma ad esseri mitologici, tra cui il drago
(enorme, con ali di pipistrello, che sputava fuoco, dalla coda irsuta) e
l’unicorno (corpo bianco, occhi azzurri, un unico corno con la punta rossa).
La
rinascita dell’antichità classica nell’Italia del quindicesimo secolo, riportò
l’osservazione delle correlazioni esistenti tra uomo e animale. I dipinti
anatomici nel quaderno degli schizzi di Leonardo da Vinci (cavalli, cigni,
cadaveri umani) sono opere d’arte di uguale valore che l’Ultima Cena o la Monna
Lisa. Egli vedeva gli esseri umani come organismi tra altri organismi nel
grande cerchio dell’esistenza, con le varie forme di vita che si fondevano una
dentro l’altra nelle varie composizioni di aria, terra, fuoco e acqua. Il
ritratto di Arcimboldo del 1566 di una testa d’uomo, anticipava la conclusione,
poi raggiunta nel 1605 dal Vescovo inglese Joseph Hall, che: "l’umanità,
quindi, ha dentro di sé capre, camaleonti, salamandre, cammelli, lupi, cani,
suini, talpe e qualsiasi altra bestia: sono pochi gli uomini tra gli uomini”.
I
naturalisti del diciottesimo secolo condividevano di Virgilio l’osservazione
nel regno animale di quei segni delle loro ottime capacità di governarsi. Il
Conte di Buffon, responsabile del Giardino Botanico Reale per Luigi XV,
riconobbe nel castoro notevoli doti di architetto, capace com’era di costruire
grandi dighe; ma era ancora più ammirato dalla capacità del castoro di
costruire un proprio sistema sociale, “con quel particolare modo di
comprendersi gli uni gli altri ed agire di conseguenza. Per quanto numerose
possano essere le comunità di castori, in esse regnano sempre la pace e
l’ordine”.
Buffon
era abituato, come Virgilio e Leonardo, non solo alla compagnia dei cavalli e
delle api, ma anche alla vista e ai suoni di anatre, vacche, galline, maiali,
tartarughe, capre, conigli e falchi. Questi gli fornivano sì il bacon, la zuppa
e le uova, ma anche la domanda: “Chi può mai dire…quanta operosità, generosità
e affetto abbiamo imparato noi umani dalla pantomima delle bestie?”
COME
IL MONDO ANIMALE HA SMARRITO LA SUA LICENZA DI INSEGNANTE
Non
molto, se le bestie non ci sono più. Nel corso degli ultimi due secoli, gli
animali sono divenuti invisibili nel sistema di vita Americano, non più
considerati compagni “storici” della società umana, scomparsi dal paesaggio
rurale e urbano. Nel 1813, John James Audubon, sulle sponde del fiume Ohio
River, restava di stucco di fronte ad un massacro di migliaia di piccioni
selvaggi da parte di centinaia di uomini, armati di pistole, torce e bastoni di
ferro. Nel 1880, in una riserva di Indiani Sioux nel territorio Dakota, Luther
Orso-in-Piedi, non riusciva a mangiare la carne di “bue puzzolente” in
sostituzione del loro “bufalo selvaggio”, che l’uomo bianco aveva decimato in
poco tempo.
E
non erano i soli ad osservare questo cambiamento. Molti altri avevano notato la
scomparsa degli animali dalla vita e dalla cultura umana. Ad esempio, nel 1900,
per le strade di New York City, si potevano trovare tra i 150.000 e i 200,000
cavalli, il che significava la raccolta di cinque milioni di libre (2.3 milioni
di chili) di letame. Nel 1912, la loro funzione di mezzi di trasporto si era
notevolmente ridotta con l’avvento dell’automobile.
E
come accadeva ai cavalli da tiro, lo stesso avveniva per la maggioranza dei
“compagni dei lavori agricoli” dell’uomo. Lontani dagli occhi, lontani dal
cuore, la gallina, il maiale e la mucca hanno perso la loro licenza di
insegnamento.
La
moderna società industriale che nasceva nel ventesimo secolo li ha trasformati
in beni e prodotti, persi nel vortice del progresso economico e scientifico,
altrimenti detto “conquista della natura”.
Gli
animali acquisirono le identità che gli conferiva l’uomo, divennero etichette
sui cibi surgelati, conservando solo una piccola parte del loro valore
intrinseco nella misura in cui fossero strumenti di ricerca o simboli culturali
– il circo, lo zoo, un logo aziendale o un personaggio dei cartoni animati di
Hollywood, un ingrediente attivo del salmone fresco d’allevamento o carne
bovina geneticamente modificata.
Fu
dieci anni dopo il mio incontro con il Koala Australiano che ho fatto la
conoscenza di un animale allo stato naturale – un entello grigio (una scimmia
asiatica, Semnopithecus entellus, pelliccia dorata, golosa di frutta e fiori).
Era alta più o meno 60 centimetri, rapida nei movimenti, una delle 60 o 70
specie di scimmie che abitano l’eremo del Maharishi Mahesh Yogi sulle rive del
Gange, 128 miglia (206 chilometri) a nord di Nuova Delhi.
A
quel tempo (Febbraio 1968) il Maharishi era all’apice della sua fama di guru;
la celebrità della sua scienza della Meditazione Trascendentale aveva raggiunto
Los Angeles, New York e Londra, e proprio in quell’inverno teneva lezioni sulla
calendula gialla (pianta officinale per l’ipertensione arteriosa n.d.t.) ad un
gruppo scelto di discepoli, tra i quali i quattro Beatles, durante un loro
viaggio nella spiritualità orientale, alla ricerca di un nuovo benessere
illuminato, lontani dal loro decadente e materialista mondo occidentale.
L’eremo
era immerso in una foresta di alberi di teak e sheesham (un tipo di legno
indiano) ai piedi del gruppo dell’Himalaya. Incaricato dalla stampa americana,
mi era stato proposto dal direttore del Saturday Evening Post di ascoltare la
voce del cosmo sotto il tetto del mondo. Durante le mie tre settimane
nell’eremo non ho saputo sui Beatles niente di più di quanto già sapessero i loro
fan, e dal Maharishi niente di più che il fatto che al quinto stadio di
consapevolezza “Tutto diventa ridicolo”. Ma dalla scimmia imparai che essa era
qualcosa di diverso: non soltanto un animale, un piccolo amico dell’uomo, una
semplice allegoria, un personaggio del cinema o un esperimento di laboratorio.
Due
giorni dopo il mio arrivo la notai, in piedi, su un albero di fronte al piccolo
rifugio dove mi era stato detto di alloggiare (una stanza di pietra bianca,
senza finestre), vicino all’entrata secondaria dell’eremo. Dopo due giorni, la
scimmia era sempre là ogni volta che entravo o uscivo dal rifugio e sentivo che
ero io ad essere osservato dalla scimmia, non la scimmia ad essere osservata da
me.
La
mattina del quinto giorno le offrii una fetta di pane; più tardi, nel
pomeriggio, mezza arancia. Ovviamente, accettò entrambe le offerte; ma nessun
segno di riconoscenza o gratitudine o affetto. Interpretai questo suo
atteggiamento come se io fossi stato lento nell’adeguarmi agli usi del luogo.
Quella stessa sera, uno dei collaboratori del guru, un monaco con la veste
giallo zafferano di nome Raghvendra, confermò questa mia idea. In India, mi
disse, l’entello grigio era un animale sacro, più conosciuto col nome di Langur
– Hanuman, il nome della divinità induista dalle sembianze di scimmia, dio
della guarigione e del culto – adorato per la sua propensione ad accompagnare i
pellegrini. Per questo godeva più o meno degli stessi privilegi delle vacche,
libertà, quindi, di mangiare dai banchi dei mercati e dai magazzini di grano.
Per
qualche strano motivo, o forse per più di un motivo, la scimmia, nei dieci
giorni successivi, è rimasta sempre vicina a me, all’altezza del mio ginocchio
destro, accompagnandomi nel …cammino verso la pura conoscenza, un cammino
durante il quale mi sono giustamente adoperato nel dispensare briciole di
cioccolato indurito e scaglie di formaggio secco. Se andavo nella sala riunioni
ad ascoltare il Maharishi che parlava di Vishnu, la scimmia rimaneva lì ferma
sul tetto di lamiera corrugato; quando veniva servito il pasto sulla terrazzo,
lì dove i discepoli ricevevano la loro razione quotidiana di riso, tè e verdure
bollite insipide, la scimmia faceva capolino tra il pergolato, dietro il tavolo
dei cibi, pronta a correre in direzione di qualche pezzo di di carota o rapa
stracotta che avrei potuto tirarle.
Quando
uscii dal rifugio, il mio ultimo giorno, per incamminarmi verso il traghetto
che attraversava il Gange, vidi che la scimmia non era più in piedi sul solito
albero. Forse aveva compreso che il mio tempo era finito, che aveva fatto tutto
il possibile per un pellegrino lento di comprendonio e che non conosceva la
lingua. O forse, no. Quello che è certo è che non gliene importava granchè. Era
andata avanti nella sua vita, da qualche altra parte, forse annoiata di sentire
una voce che non era esattamente la voce del cosmo.
Alca impenne
LA
SCOMPARSA DEGLI ANIMALI
Lo
studioso e saggista rinascimentale Michel de Montaigne si domandava già nel
1576: “Quando gioco con il mio gatto, chissà se è lui il mio passatempo o se
sono io il suo.” Il dubbio di Montaigne sorgeva alla luce dell’insegnamento
biblico secondo il quale l’Uomo era stato creato ad immagine di Dio e, quindi,
gli era stato dato “il dominio sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e
su ogni altro essere che si muove sulla terra”.
La
pretesa del trono dell’universo da parte di quella che Montaigne definiva “la
più fragile e vulnerabile tra le creature”, egli la considerava un’impudenza
vanagloriosa; “l’Uomo che si abbiglia come un Dio e si tiene a debita distanza
dalle orde delle altre creature, conferendo a questa o a quella quello facoltà
e capacità a suo piacimento”. Divertito da questo ragionamento, Montaigne
continuò domandandosi anche: "Come può (l’uomo) conoscere, con la sua
intelligenza, l’intimo sentire degli animali? Da quale confronto tra loro e noi
egli ne deduce la stupidità che gli attribuisce? E’ solo una deduzione, che
porta in sé l’errore di una mancata reale comprensione reciproca; poiché noi
non comprendiamo loro tanto quanto loro non comprendono noi. Per questo stesso
ragionamento anche loro possono considerare noi bestie, come noi consideriamo
loro.”
Lo
scrittore Americano Henry Beston riprese questi interrogativi mentre camminava
sulla spiaggia di Cape Cod negli anni ’20, mentre osservava le costellazioni di
uccelli acquatici formarsi e riformarsi “in silenziosa e costante obbedienza,
come se rispondessero ad un misterioso comando. Affascinato dai voli a spirale,
che paragonava a “stelle viventi”, Beston comprese che le creature “non
umane" eludevano la definizione che l’uomo gli aveva attribuito, e cioè
che gli animali non potevano considerarsi meccanismi programmati dal Grande
Meccanismo Creatore nel cielo per saltare, emettere versi, nuotare, librarsi in
volo, ruggire, fare nidi, strisciare, osservare e accoppiarsi.
"Abbiamo
bisogno” disse Beston “ di un nuovo concetto più sacro degli animali…Noi li
sovrastiamo per la loro incompletezza, a causa del destino che li ha creati in
forme inferiori a noi. Ma sbagliamo, e molto. Non sono sottospecie, non sono
esseri inferiori; loro sono altre nazioni, che esistono insieme a noi nella stessa
nostra rete di tempo e di esistenza, anch’essi prigionieri dello splendore e
del travaglio della terra”.
Con
l’avvento del 21° secolo, ciò che resta dell’antica fratellanza tra uomo e
animale è per lo più legata alla convivenza e alla cura di un animale
domestico. Probabilmente, per compensare la rapida ed inesorabile scomparsa
delle specie del mondo animale, il numero degli animali domestici negli Stati
Uniti ha superato quello dell’intera popolazione umana a sud del Potomac e ad
ovest del Mississippi – 70 milioni di cani, 75 milioni di gatti, 5 milioni di
cavalli. E Dio solo sa chissà quanti rettili e uccelli in gabbia…
Che
gli animali siano ancora fonte di insegnamento, o che abbiamo quelle “qualità
analoghe” che Aristotele definiva “forme di intelligenza”, è una teoria
fortemente sostenuta dai numerosi documentari che esplorano le giungle
dell’Africa e dal fatto che i video di gatti postati sulla rete sono molto più
visti di quelli dei costosi pupazzi meccanici che fanno da sfondo rituale ai
Super Bowl.
Per
2,500 anni gli studiosi della natura hanno realizzato che più essi imparavano
degli animali e più meravigliosi questi gli apparivano. L’osservazione spesso è
affidata a strumenti scientifici e artistici, ma è ancora più istruttivo
guardare, come faceva Beston a Cape Cod, il modo in cui altre nazioni si
completano in se stesse “con quel dono dell’estensione dei sensi che noi
abbiamo perso o mai raggiunto, e dell’ascolto di voci che noi non sentiremo
mai.”
I
rapporti sui danni ambientali dai quattro angoli del mondo degli ultimi
duecento anni non lasciano più spazio alla domanda di Montaigne su chi sia la
bestia e chi l’uomo.
Che
sia condotta da uomini armati di provetta o bulldozer, la conquista della
natura è un impresa di folli. Nonostante tutto, gli animali riescono a vivere
non solo a loro agio nella grande catena dell’esistenza, ma anche in armonia
con le maree, con le stagioni e con la presenza della morte: è questo il loro
grande insegnamento all’umanità. Sia che ci decidiamo ad impararla, sia che
prendiamo la strada dell’ Alca Impenne (una specie di pinguino, estinta nel 19°
secolo.
giovedì 28 marzo 2013
SOSTENIBILITA', NUOVO PARADIGMA
L'esito
delle elezioni ha creato una irreversibile instabilità del sistema politico
italiano, ma sta anche facendo prendere coscienza a molti che siamo ormai alla
vigilia di un "cambio di paradigma". Il sistema politico che ha retto
le sorti del Paese negli ultimi vent'anni, ma soprattutto l'assetto economico
che lo ha forgiato e foraggiato, non reggono più. Il successo di Grillo non ne
è che un segnale.
Questo
assetto, espressione e referente del cosiddetto "pensiero unico", è
il combinato disposto di vari fattori.
Globalizzazione,
delocalizzazione delle produzioni, precarizzazione del lavoro, diseguaglianze
crescenti, finanziarizzazione del comando capitalistico, debito pubblico e
privato come strumento di imbrigliamento della società, della politica e del
lavoro, guerre, crisi e insicurezza come condizione umana permanente. È il
paradigma che si è andato affermando nell'ultimo quarto del secolo scorso a
spese di quello che era stato in vigore prima, nei cosiddetti "trent'anni
gloriosi" (1945-75) senza che per molto tempo quel passaggio venisse
avvertito in tutta la sua portata. Perché fino a quarant'anni fa i meccanismi
portanti dell'accumulazione del capitale erano stati il mito dello sviluppo
economico (sia nei paesi già "sviluppati" che in quelli "in via
di sviluppo") e la crescita di salari, consumi e welfare: una sintesi di
fordismo e politiche keynesiane governata con la continua espansione della spesa
pubblica e l'intervento dello Stato nell'economia. Anche quel paradigma aveva
comunque concluso il suo corso perché non reggeva più: a metterlo alle strette
erano state le aspettative di uguaglianza, di autonomia, di democrazia, di
libertà delle nuove generazioni (non a caso si era parlato allora addirittura
dei "giovani come classe"): i movimenti studenteschi del '68, la
rivolta antimilitarista contro la guerra in Vietnam, la discesa in campo, in
molti paesi, di una classe operaia giovane, spesso immigrata, ancora in gran
parte concentrata in grandi stabilimenti industriali; e poi, al loro seguito,
una pletora di "categorie" sociali - dai ricercatori ai giornalisti e
agli insegnanti, dai poliziotti ai magistrati, dai disoccupati "organizzati"
ai baraccati - che aveva messo in moto, senza portarla a termine, quella «lunga
marcia attraverso le istituzioni» preconizzata da Rudi Dutschke.
Adesso
un nuovo cambio di paradigma, e ben più radicale e traumatico, è di nuovo
all'ordine del giorno; non è ancora il contenuto esplicito di un conflitto
aperto, ma cova sotto traccia da parecchi anni. C'è chi sostiene che la
soluzione alla crisi in corso sia il ritorno al paradigma di un tempo: più
Stato e meno mercato, più spesa pubblica per rilanciare redditi e consumi, più
Grandi Opere e incentivi alle imprese per creare occupazione. Ma bastano
ricette del genere per far fronte alla crisi?
No.
Le condizioni che presiedevano al modello dei "trenta gloriosi" non
ci sono più. Il mondo si è "globalizzato": lo hanno reso tale non
solo la "libera circolazione" dei capitali (che certamente va
bloccata) e l'enorme viavai di merci generato da una divisione del lavoro
estesa su scala planetaria (che va drasticamente ridotto). Ma anche internet -
una grande risorsa per tutti - la diffusione dell'istruzione, e l'accesso
all'informazione, in tutti i paesi e i giganteschi flussi migratori che
attraversano il mondo intero, che sono invece fenomeni irreversibili. Tuttavia
l'orizzonte esistenziale della nostra epoca è ormai occupato - la si voglia
vedere o no - dalla crisi ambientale che incombe tanto su tutto il pianeta
quanto, in forme specifiche e differenti, su ogni sua singola porzione.
Crescita e sviluppo - pur con tutte le qualificazioni del caso - sono ormai
ritornelli ricorrenti ma privi di senso perché la crisi ambientale sbarra la
strada a ogni espansione economica che non sia anche e soprattutto
devastazione.
Bisogna
allora rivedere alle radici gli assetti che ci hanno portato sull'orlo della
catastrofe. La finanziarizzazione, da tutti individuata come causa principale
della crisi (anche se i più affidano ad essa anche la ricerca delle soluzioni
per uscirne) non è che il compimento parossistico di un processo iniziato oltre
due secoli fa con quella che Karl Polanyi aveva chiamato «la grande
trasformazione»: la riduzione a merci di tre cose che merci non possono essere,
pena la distruzione della vita associata (e, oggi possiamo dirlo, anche del
nostro rapporto con Madre Terra). Quelle tre "cose" che continuano a
rivoltarsi contro la loro riduzione a merci (Polanyi le chiamava «merci
fittizie») sono il lavoro, la terra e il denaro. La lotta dei lavoratori contro
la propria mercificazione non ha bisogno di illustrazioni, perché è la storia
stessa del movimento operaio nelle sue più diverse espressioni.
L'appropriazione delle terre (enclosure, ai tempi di Elisabetta I e
landgrabbing oggi) è stata ed è la base di quell'«accumulazione primitiva» che
per il capitale non è un processo iniziale, ma permanente. Però oggi è tutta la
Terra, intesa come ambiente (aria, acqua, suolo ed energia), a essere oggetto
di compravendita sotto forma di green-economy: un valido motivo per
contrastarla nei suoi presupposti, perché è l'esatto opposto di una vera
conversione ecologica. Quanto al denaro, delle sue tre funzioni fondamentali -
misura del valore, mezzo di scambio e oggetto di accumulazione - la
finanziarizzazione non è che il definitivo sopravvento della terza funzione
sulle altre due: il prezzo delle merci è ormai determinato dalle speculazioni su
di esse più che dal valore o dal contributo degli input produttivi e gli scambi
- il nostro accesso ai beni e ai servizi in commercio - sono sempre più mediati
da qualche forma di debito, che è lo strumento fondamentale della
finanziarizzazione. La crisi in corso non è altro che questo. Perciò, anche se
non abbiamo un modello preciso a cui ispirarci, sappiamo che l'uscita dalla
crisi dovrà necessariamente incorporare forme nuove di controllo sociale sul
lavoro, sui beni comuni e sul credito (l'attività delle banche; perché denaro e
credito sono in gran parte la stessa cosa). Non sarà una passeggiata, ma un
conflitto lungo e aspro, che solo una profonda consapevolezza che «ritirarsi è
peggio» potrà alimentare. Sapendo però che il nuovo paradigma dovrà convivere
ancora a lungo con forme, ancorché depotenziate, di economia del debito; così
come la democrazia partecipativa non potrà - né dovrà - fare a meno di quella
rappresentativa, e di quel sistema politico degradato che la sorregge ormai in
tutto il mondo.
Il
nuovo paradigma che può e deve prendere il posto di quello fallimentare imposto
dal pensiero unico liberista è la sostenibilità ambientale. La si chiami
decrescita, conversione ecologica, giustizia sociale e ambientale o economia
dei beni comuni (senza pretendere di annullare le differenze tra questi
approcci) è l'unica soluzione che può garantire equità nella distribuzione
delle risorse, salvaguardia degli equilibri ecologici e recupero del know-how,
del patrimonio impiantistico e dell'occupazione che il sistema economico
attuale sta mandando in malora: una fabbrica dopo l'altra, un paese dopo
l'altro.
La
transizione a questo nuovo paradigma non può essere governata dall'alto o da un
"centro" - come è il caso, invece, nella maggior parte delle
politiche neokeynesiane - perché si fonda su diffusione, ridimensionamento,
differenziazione e interconnessione orizzontale sia degli impianti produttivi
che degli interventi: si pensi alla vera vocazione delle fonti rinnovabili (per
essere efficienti devono essere piccole, differenziate e distribuite e non
concentrate come si fa ancora troppo spesso), all'efficienza energetica,
all'agricoltura multifunzionale e a km0, alla gestione dei rifiuti, alla
mobilità flessibile, alla salvaguardia degli assetti idrogeologici, ecc. Quel
nuovo paradigma è intrinsecamente democratico e indissolubilmente legato a uno
sviluppo della partecipazione, perché non può affermarsi senza il concorso dei
saperi diffusi presenti sul territorio e l'iniziativa dei lavoratori e delle
comunità interessate; il che impone agli asset sottoposti alla transizione il
connotato di "beni comuni" .
L'altro
requisito irrinunciabile del nuovo paradigma è la ri-territorializzazione (o
ri-localizzazione) di molte attività produttive. Gli effetti nefasti della
globalizzazione non si combattono con il protezionismo (fermare le merci ai
confini preclude la possibilità di esportarne altre: quelle necessarie a pagare
ciò che un singolo Paese o anche un singolo continente non potrà mai produrre);
e meno che mai con il ritorno alle valute nazionali. Non è l'euro - che è
"solo" una moneta - la causa degli squilibri crescenti che investono
l'Europa; bensì il modo in cui l'euro è governato: cioè i limiti, che le altre
valute mondiali non conoscono, imposti alla sua gestione per trasferire meglio
all'alta finanza il comando sulle politiche economiche nazionali e per portare
avanti l'attacco a occupazione, salari e welfare. La ri-territorializzazione si
realizza invece promuovendo controllo sociale sui processi produttivi; e
innanzitutto sui servizi pubblici locali (energia, ristorazione pubblica,
gestione dei rifiuti, mobilità, servizi idrici, ecc.) e combattendone la
privatizzazione. Convertiti in "beni comuni" gestiti in forma
partecipata, i servizi pubblici locali possono diventare il punto di raccordo
tra la promozione di una domanda finale ecologicamente sostenibile e l'offerta
di impianti, materiali, attrezzature e know-how necessari per soddisfarla. Per
esempio, raccordo tra diffusione delle fonti rinnovabili e dell'efficienza
energetica e imprese riconvertite alla produzione degli impianti e dei
materiali corrispondenti. O tra approvvigionamento di cibi sani e a km0 per le
mense pubbliche e per tutti coloro che lo desiderino e un'agricoltura ecologica
di prossimità; e così per la mobilità, l'edilizia, la gestione dei rifiuti,
ecc. Certo garantire l'incontro tra domanda e offerta richiede accordi di
programma di cui possono farsi carico solo i governi locali che assumono su di
sé la responsabilità della transizione. Accordi che certo limitano la
concorrenza - ma non il funzionamento dei mercati - nelle forme propugnate dal
pensiero unico e dall'establishment. Ma sono accordi fattibili, persino
compatibili, in nome della salvaguardia dell'ambiente, con la normativa dell'Ue;
e che in alcuni casi vengono già praticati. E' la strada che occorre
percorrere.
mercoledì 27 marzo 2013
MARO! CHE FIGURA!
Il
mondo cambia, sta cambiando, è già cambiato e forse non tutti ce ne siamo
accorti.
Finora
avevo accuratamente evitato di intervenire sulla questione dei Marò italiani
accusati dell’omicidio di due pescatori indiani, ma gli ultimi avvenimenti, con
il ritorno degli stessi in India dopo il goffo tentativo di sottrarsi ad un
impegno preso e le posizioni sempre più fascistoidi e impregnate di ignoranza
sciovinista mi inducono a fare alcune riflessioni.
I
due hanno sparato e ucciso due pescatori (25 e 42 anni) in acque (forse) internazionali,
scambiandoli per pirati. Due padri di famiglia che non sono potuti tornare a
casa, non per votare o per le vacanze di Natale, ma semplicemente dai propri
familiari e che non ci torneranno mai più. Fin dall’inizio la questione principale
apparve chiaro , fosse quella delle competenze, con un incrocio di leggi e
norme che vanno dal diritto internazionale a quello degli stati interessati, oltre
che a quello marittimo e militare.
Da
parte italiana la questione è stata affrontata, da subito, con leggerezza e
sottovalutazione, certi che, grazie ai buoni rapporti con l’India, la questione
si sarebbe risolta con qualche pacca sulle spalle e un impegno a non farlo più:
“ Dai, in fondo, sono ragazzi!”
Convinzione
nata dalla stessa ignoranza e presunzione di superiorità manifestata per ogni
dove negli ultimi tempi, per cui l’India è vista ancora come il paese
sottosviluppato e abitato solo da tigri e da selvaggi come nei romanzi
salgariani.
Se
si fosse seguita un pochino di più l’evoluzione del mondo e di alcuni paesi in
particolare degli ultimi venti anni, ci si sarebbe accorti che da molto tempo
le cose non sono più così.
Cit……”L'Italia
perde due posizioni nella classifica dei 20 paesi più industrializzati,
superata anche da India e Corea del Sud……..
…L’India
laurea un numero enorme di bravissimi ingegneri e computer scientist, e in
tutto il mondo nei dipartimenti di Fisica e di Matematica trovi più indiani che
europei. La produttività del settore industriale è notevole, per non ripetere
che il reddito nazionale in India cresce a ritmi che noi non conosciamo dagli
anni Sessanta. Il centro di New Delhi è oramai più pulito di quello di Roma, la
metropolitana più lunga e efficiente, lo show business è formidabile a
cominciare dal cinema, l’aeroporto Indira Gandhi nella capitale è modernissimo,
gallerie d’arte e librerie sono numerose.”…..
Accanto
a questi enormi progressi dell’India e di altri paesi dell’ex terzo mondo,
contemporaneamente c’è stata una regressione a livello di credibilità
internazionale dell’Italia che, ormai, la pone ai margini, dello scenario
politico mondiale grazie alla scelleratezza delle scelte economiche e politiche
degli ultimi venti anni.
Tanto
per essere chiari, è l’India che può esercitare maggiori pressioni sia politiche
che economiche verso l’Italia, non il contrario.
Da
parte di alcuni si sente vaneggiare di azioni di forza che si dovrebbero
mettere in atto con blitz militari per liberare
i due marò o addirittura di minaccie di vendette xenofobe nei confronti dei numerosi indiani
presenti in Italia (sperando che, poi, siano in grado di distinguerli dai
pakistani o da quelli del Bangladesh onde evitare ulteriori guai internazionali).
“Uè
ragassi, ma siamo impassiti?” Come direbbe il buon Bersani.
Avremmo
lo stesso atteggiamento se il fatto si fosse svolto esattamente al contrario
con due pescatori italiani uccisi perché scambiati per pirati?
Io
non so come si siano svolti i fatti, se i due sono colpevoli per errore o per
scelta, se erano in acque internazionali o indiane, ma so per certo che la
questione è stata trattata da parte italiana con una imperizia impressionante (questa
sì colpevole), e le ultima mosse con il rifiuto, prima, di far ripartire i due,
dopo aver sottoscritto un impegno, e poi la decisione di rimandarli in India,
non ha certo migliorato la situazione.
L’India
lasciando liberi i due di tornare per votare si era assolutamente fidata dell’impegno preso
dall’Italia che, invece, con il goffo tentativo di non onorarlo, ha mostrato
una grave mancanza di rispetto che, a livello internazionale (non solo nei
confronti dell’India) ha il suo peso. Tra l’altro ora, ad essere in una
condizione ancor più grave, sono proprio i due soldati che si sarebbe voluti
tutelare, rischiando di far fare loro la fine dei vasi di coccio tra la rabbia indiana e la
scelleratezza italiana.
Ci
vorrà, tempo, molta pazienza e capacità diplomatiche per rimettere insieme i
cocci della situazione, e senza un governo credibile, attualmente, la cosa è
ancor più complicata.
Ecco
se proprio vogliamo dare una mano ai marò e non solo a loro, interessiamoci di
più di avere rappresentanti efficienti ,capaci e responsabili nei confronti
dell’intera nazione e capire che non siamo più ai tempi di Roma caput Mundi,
ora Roma e L’Italia, purtroppo, sono molto più periferia che centro e di questo dobbiamo essere tutti un po’ più coscienti.
“Ogni
paese ha il governo che si merita.”
MIZIO
martedì 26 marzo 2013
FORESTE, FONTE DI VITA
Amazzonia
"Senza le foreste non ci sarebbe vita sulla
Terra", ricorda Greenpeace in occasione della Giornata Internazionale
delle Foreste ( 21 marzo 2013), proclamata lo scorso novembre
dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. In tempi di cambiamenti climatici,
ricorda l'associazione, le foreste trattengono circa 300 miliardi di tonnellate
di carbonio, ovvero 40 volte le emissioni di gas serra che emettiamo ogni anno
a livello globale. Sono la casa di milioni di persone che vivono delle foreste,
ma anche mammiferi, uccelli, rettili, insetti, alberi, fiori e pesci. “La
distruzione di una foresta in una parte del globo può avere un impatto
disastroso dall’altra parte del Pianeta. Alcuni scienziati hanno recentemente
dimostrato come la perdita di foreste in Amazzonia e in Africa centrale riduca
notevolmente le precipitazioni nel Midwest negli Stati Uniti” spiega Chiara
Campione, responsabile campagna Foreste Greenpeace Italia. Dall’Amazzonia
all’Africa Centrale, dal Canada alla Siberia, dalla Papua Nuova Guinea
all’Indonesia, da Sumatra alla nostra Europa Greenpeace ha diffuso immagini
delle foreste più belle del mondo, con l’auspicio di raggiungere presto
l’obiettivo Deforestazione Zero e conservare questi preziosi ecosistemi.
"Tutelare le foreste significa tutelare e garantire
un futuro più verde. È questo il messaggio che in Italia Federparchi, Kyoto
Club e Legambiente hanno lanciato in occasione della Giornata. Un’occasione per
ribadire l’importanza di una maggiore tutela e valorizzazione di questo
prezioso patrimonio, minacciato dai cambiamenti climatici e dalla conversione,
sempre più diffusa, del suolo ad altri usi. Ogni anno vengono, infatti, perduti
circa 13 milioni di ettari di foreste. Per fronteggiare questa perdita, le tre
associazioni nel 2007 hanno dato vita al Comitato Parchi per Kyoto, che si
occupa di attivare in Italia progetti di forestazione nelle aree protette e
promuovere campagne d’informazione per una gestione sostenibile del territorio.
Fino ad ora il Comitato ha avviato quasi 30 progetti, coinvolgendo 44 aree
protette per un totale di 76.051 alberi piantumati.
Sumatra
“Salvaguardare le foreste – dichiara Giampiero Sammuri,
presidente di Federparchi – significa avere impatti positivi sul clima, sulla
biodiversità, sulla salute ed il benessere dei cittadini. In questi anni Parchi
per Kyoto, oltre a dare un contributo concreto in termini di contenimento della
CO2, ha cercato di creare una sinergia tra le imprese e le aree protette
italiane per avviare progetti di forestazione. I parchi naturali, che in Italia
coprono circa il 10% del territorio, sono infatti soggetti del tutto funzionali
e strategici ad ospitare progetti di rimboschimento finalizzati a sottrarre
anidride carbonica dall’atmosfera”.
Le foreste rappresentano il più importante serbatoio di
biodiversità per l’80% delle specie animali e vegetali della Terra,
garantiscono la protezione del suolo, la qualità dell’aria e delle acque e
forniscono importanti beni e servizi pubblici per ben oltre 7 miliardi di
persone. Inoltre mitigano gli effetti dei cambiamenti climatici, poiché
funzionano come serbatoi di assorbimento del carbonio, e forniscono una
protezione naturale contro gli effetti del dissesto idrogeologico.
“Ogni albero nel corso del suo intero ciclo di vita –
spiega Catia Bastioli, Presidente Kyoto Club – permette l’abbattimento di una
quantità stimata in circa 700 Kg di CO2. Per questo riteniamo importanti i
progetti di forestazione e i risultati ottenuti fino ad ora lo stanno
dimostrando. Inoltre non dimentichiamo che l’importanza degli interventi di
forestazione è stata riconosciuta sia dal Protocollo di Kyoto sia dalla
Convenzione delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici”.
Indonesia
Fonti: Greenpeace, Parchi per Kyoto
sabato 23 marzo 2013
INVASIONI BARBARICHE
Inizialmente
passano inosservati e, solo alcuni attenti osservatori, si accorgono della loro
presenza. Arrivano per le vie più disparate. Per i cambiamenti climatici, per lo
sfruttamento da parte dell’uomo, per la mancanza di competitori naturali, per
la maggiore adattabilità ad usare gli spazi inutilizzati, per la colpevole
incoscienza degli umani. Non stiamo parlando delle migrazioni dei milioni di disperati
attirati dal miraggio di una vita migliore qui da noi, ma di esseri altrettanto
numerosi, meno disperati, ma altrettanto decisi a conquistare nuovi spazi e
nuovi territori, spesso a scapito degli abitanti originari.
Stiamo parlando
delle centinaia di nuove specie animali che arrivano in Italia e in Europa da
altri continenti e ambienti e che trovano numerose nicchie ecologiche da
sfruttare.
Sono specie più robuste adattabili delle nostre e tendono, quindi, a
sostituirsi ad esse entrando in competizione alimentare ed ecologica, rompendo
un millenario equilibrio, alterando i biotopi con conseguenze, spesso
irreversibili, a tutto scapito della biodiversità originale.
Mentre
alcune di queste specie sono portate naturalmente ad espandersi, la maggior
parte è stata favorita dalle attività umane, con il riscaldamento globale e i
cambiamenti climatici, l’alterazione degli habitat naturali, il collezionismo,
l’allevamento di specie esotiche, con conseguenti fughe e/o rilasci volontari
per la caccia, la pesca o per incuria e ignoranza.
In
molti casi il processo appare irreversibile e l’unica cosa che si può fare è
cercare di preservare con severe norme di protezione i pochi ambienti rimasti con caratteristiche di
verginità ecologica sperando che da queste isole parta la riconquista
dell’ambiente da parte dei legittimi originari abitanti.
Solo
tra i vertebrati ci sono, tra gli altri: (i dati sono presi dal sito del
DAISIE)
Trota iridea
Siluro
Pesci:
Trota Iridea, Salmerino di fonte, Blicca, Abramide, Pseudorasbora, Gardon,Rodeo,
Siluro, Pesce gatto, Pesce gatto americano, Pesce gatto africano, Pesce Re,
Persico trota, Persico sole, Acerina, Luccioperca, Carpa erbivora, Carpa
argentata, Carassio, Tilapia, Rutilo, Gambusia, Barbo danubiano, Barbo spagnolo,
Aspio, Temolo Russo;
L’immissione
di pesci estranei all’habitat originale ha causato la completa alterazione
dello stesso. Ad esempio dove è stata seminata in maniera scellerata la trota
iridea (la mitica trota salmonata) ha spazzato via le originarie popolazioni di
trota marmorata e fario sia alpine che appenniniche.
L’introduzione del siluro (un pesce di più di due mt di lunghezza e del peso anche di pltre 200 Kg) nel bacino
del Po e i suoi affluenti ha provocato la scomparsa quasi totale di diverse
specie di pesci nostrani, come il cavedano, il barbo, il luccio diventando la
specie dominante in un ambiente, in cui la piramide ecologica era frutto di
equilibri millenari. Purtroppo la sua diffusione pare inarrestabile, essendo
arrivato, ormai, a colonizzare anche altri ambienti ancora più piccoli e più
indifesi dal punto di vista dell’equilibrio ecologico come L’Arno e i suoi
affluenti.
Anfibi:
Rana toro, Rana balcanica
Rana toro
In
questo caso i danni risultano minori per la limitata espansione, soprattutto
della rana toro americana che,
nutrendosi di altri anfibi avrebbe potuto costituire una seria minaccia per gli
stessi. Sopravvive con poche popolazioni solo nella pianura Padana.
Rettili:
Tartaruga orecchie rosse ,Agama agama, Geco dei balcani.
Tartaruga orecchie rosse
Tra
i rettili l’impatto ecologico peggiore lo sta provocando quella simpatica
tartarughina acquatica proveniente dalla Florida, che, pur essendone vietata
per legge la vendita,
continua
ad essere presente nelle mille fiere paesane e nei negozi di animali. Così
piccola e innocua fa tenerezza e si porta a casa per far contento il pupo.
Salvo poi scoprire che la tenera piccola tartarughina si trasforma in un vorace
mostro che arriva a pesare anche 5 kg.
Allora che si fa? Si rilascia nel primo
stagno, laghetto o pozza d’acqua, decretando così la scomparsa della più rara, timida
e meno aggressiva, tartaruga d’acqua dolce nostrana.
Uccelli:
Ibis sacro, Airone Guardabuoi,Coturnice orientale, Colino della Virginia,
Parrocchetto dal collare, Parrocchetto monaco, Usignolo del Giappone, Bengalino
comune, Becco a cono golacinerina, tortora dal collare orientale
Parrocchetto monaco
Gli
uccelli dal punto di vista ecologico, avendo la possibilità di volare sono
sempre stati presenti in maniera occasionale o prolungata, anche in ambienti
estranei al proprio.
Sono quindi, in genere, le specie che meno alterano
l’habitat. Esclusi alcuni casi in cui si sovrappongono e si sostituiscono alle
specie originarie sfruttando lo stesso ambiente. E’ quello che sta succedendo
con l’espandersi di alcune colonie di pappagalli (Parrocchetti monaci e dal
collare), ormai stanziali in parchi e giardini di città come Roma che stanno
provocando la lenta ma continua diminuzione di specie nostrane come i picchi e
le civette, in quanto occupano per la nidificazione gli stessi buchi negli
alberi, ed, essendo più grandi e aggressivi, ne causano l’allontanamento.
Mammiferi:
Scoiattolo grigio, scoiattolo variabile, tamia siberiano, visone, nutria, cane
procione, topo muschiato, minilepre, sciacallo dorato.
Scoiattolo grigio
Nutria
Visone americano
Tra
i mammiferi d’importazione quelli che hanno avuto il maggior impatto (negativo)
ambientale sono senza dubbio lo scoiattolo grigio che dove è arrivato ha
decretato la scomparsa del più timido e gracile scoiattolo rosso tipico delle
nostre foreste; tra l’altro, essendo anche molto più confidente con l’uomo
rispetto al nostro, riscuote anche molta simpatia. L’altro, involontario
flagello. è la nutria, ormai
diffusissima dappertutto ove ci sia un po’ d’acqua che, per la sua abitudine di
scavare gallerie nelle rive, spesso franose, dei corsi d’acqua ne compromette la
stabilità e, in quei pochi luoghi ove sopravvive ancora la lontra. ne occupa lo
stesso habitat contribuendo a metterne in pericolo la sopravvivenza.
Altro
ospite di cui si potrebbe fare a meno è il visone americano che fuggiti dagli allevamenti o liberati da animalisti poco
sensibili all’equilibrio ecologico, laddove riescano a sopravvivere falcidiano
le covate e i pulcini degli uccelli acquatici e le popolazioni di anfibi.
Inoltre più grossi e aggressivi competono con la nostrana puzzola decretandone la
sparizione.
Tra
gli invertebrati ricordo solo il gambero rosso americano, la zanzara tigre e il
famigerato punteruolo rosso ma qui l’elenco è veramente troppo lungo.
Gambero rosso della Louisiana
Zanzara tigre
Punteruolo rosso
Ne
citiamo solo tre tra i più comuni e dannosi, la zanzara tigre penso ormai la
conoscano purtroppo tutti, è andata a coprire un vuoto ecologico essendo attiva
di giorno e, quindi, non entrando in competizione con la comune zanzara. Il
punteruolo rosso forse è meno conosciuto, ma sicuramente altrettanto dannoso. A
lui si deve la morte ormai quasi certa di quasi tutte le palme presenti nei
giardini pubblici e privati. Lasciando l’atroce dubbio di come potrebbe
riciclarsi nel momento in cui non avessi più a disposizione le palme preferite.
In alcune zone pare abbia cominciato ad attaccare già altre specie di palma.
Ma
quello che appare come un vero e proprio flagello biblico è il gambero rosso della
Louisiana che, introdotto per l’alimentazione sia umana che dei pesci d’allevamento (per dare
il tipico colore rosa alle carni della famosa trota salmonata di cui sopra) è
ormai il padrone indiscusso dei laghi e corsi d’acqua del centro-nord Italiano e,
grazie al suo eclettismo alimentare e alla sua robustezza sta facendo stragi di
anfibi, avannotti e qualsiasi altro animale di piccole dimensione presente nel
suo habitat.
Per
carità di patria e per l’enormità del lavoro, tacciamo sull’ invasione delle
migliaia di specie vegetali esotiche e non, che popolano ormai tutti nostri
ambienti, altrettanto infestanti e pericolose.
Insomma,
anche in natura sembra valere sempre il
vecchio proverbio: “Mogli e buoi dei paesi tuoi”
MIZIO
DOMANDE CHE NON HANNO RISPOSTA
Ci
sono misteri che gli scienziati non saranno mai in grado di svelare. Perchè? Il
nostro cervello potrebbe non esserne capace. Forse le forze fondamentali della
natura sono originate da vibrazioni di energia: è la teoria delle stringhe.
Indimostrabile!
Dove
si trova la coscienza? C'è un punto del cervello che possiamo considerare la
sede della coscienza? Quando un essere umano allo stato embrionale comincia ad
avere stati mentali e quindi qualcosa di simile a una coscienza? La scienza non
sa rispondere. Come è nata la vita sulla Terra? Probabilmente non lo sapremo
mai (a meno di non avere la macchina del tempo).
All’inizio
del secolo scorso, gli astronomi erano divisi in due fazioni: quelli che
pensavano che la Via Lattea fosse la sola galassia dell’universo e quelli
(pochi) che ritenevano invece che ce ne fossero anche altre. Poi, all’inizio
degli anni Venti, lo statunitense Edwin Hubble usò un telescopio più potente
degli altri, che gli permise di vedere le galassie attorno alla nostra. Quella
scoperta mise fine alla disputa.
La
storia della scienza procede così, rispondendo a grandi domande che non di
rado, all’inizio, sembrano irrisolvibili. Esistono però alcuni misteri che sono
destinati a rimanere tali, perché limiti fisici invalicabili si frappongono fra
noi e la soluzione, oppure perché, come fa notare Piergiorgio Strata,
presidente dell’istituto nazionale di Neuroscienze, «può darsi che il nostro
cervello non sia fatto per capire tutto».
L’universo
sconosciuto
Resterà
per esempio sempre avvolto dal mistero ciò che c’è al di là dell'universo
osservabile. Con questa espressione i cosmologi indicano il confine oltre il
quale nessun telescopio potrà mai spingersi, perché la luce che emettono gli
oggetti che si trovano più in là di quel limite impiegherebbe, per giungere da
noi, un tempo superiore all’età dell’universo, che è di 13,7 miliardi di anni.
Gli
strumenti di cui dispone la scienza sono già quasi arrivati a vedere fin lì:
recentemente, infatti, in uno studio che ha coinvolto anche l’istituto
nazionale di Astrofisica, è stato osservato un lampo di raggi gamma (esplosione
che rappresenta lo stadio finale dell’evoluzione di alcune stelle) che dista 13
miliardi e 140 milioni di anni luce dalla Terra. «È l’oggetto più lontano che
sia mai stato osservato» ha detto Antonio Cucchiara, l’italiano che ha
coordinato lo studio, dall’Università della California di Berkeley. E arrivare
proprio a 13,7 miliardi di anni luce sarà molto difficile.
Per
molto tempo, gli scienziati hanno pensato che, in fin dei conti, non c’è nessun
motivo per pensare che ciò che c’è al di là dell’universo osservabile sia molto
diverso da ciò che sta al di qua. In anni recenti, però, la scoperta di flussi
di galassie che si muovono rapidissime verso il limite di osservabilità, come
se viaggiassero su un’autostrada superveloce, ha fatto pensare che la parte
imperscrutabile del cosmo possa nascondere strutture gigantesche, che
attraggono le galassie con la loro forza di gravità, e sulla cui natura si
possono fare soltanto ipotesi. .
L’enigma
delle stringhe
L’astrofisica,
così come molte altre discipline scientifiche, è fatta di un mix di teorie
difficilmente verificabili (o non verificabili affatto) e di fatti certi,
comprovati dall’osservazione o dagli esperimenti. Esiste però un settore che è
totalmente dominato dalle prime: la teoria delle stringhe, in base alla quale
le forze fondamentali della natura nascerebbero dalle vibrazioni di minuscoli
fasci di energia, non può infatti essere dimostrata.
Gli
“stringhisti” producono pagine e pagine di calcoli, tutti coerenti e anche
plausibili, ma non c’è esperimento che possa provare ciò che dicono, perché
indagare la materia al livello di dettaglio previsto dalla loro teoria
richiederebbe la costruzione di acceleratori di particelle più grandi del
pianeta Terra.
«Dovrebbero
avere le dimensioni di una galassia» fa notare Russel Stannard, professore
emerito di fisica alla Open University del Regno Unito, che ha fatto il conto.
L’unica soluzione sarebbe il colpo di genio di qualche scienziato, che
riuscisse a trovare un’altra strada per dimostrare la teoria delle stringhe,
diversa da quelle che oggi possono essere ipotizzate. [Leggi articolo: La più
piccola parte dell'universo].
Come
nasce la coscienza?
Strade
nuove e strumenti non ancora inventati potrebbero essere la chiave giusta anche
per la soluzione di un altro enigma che fa arrovellare scienziati e filosofi
fin dal tempo dell’antica Grecia: quello della coscienza. «La coscienza è una
proprietà della mente, che deriva dalla complessità del cervello» spiega Piergiorgio
Strata, «ma non esiste nessun modello che sia davvero in grado di descriverla o
di capire come nasca».
C’è
chi sostiene, infatti, che il cervello umano non sarà mai capace di comprendere
fino in fondo se stesso (e quindi la coscienza) perché per farlo ci vorrebbe
una mente con un livello ancora maggiore di complessità. Ma questa
argomentazione fa arrabbiare molti scienziati, che invece sostengono che il
mistero, prima o poi, sarà risolto. Gli esperti di intelligenza artificiale,
per esempio, ritengono che simulando i processi mentali su macchine sia
possibile capire anche come nasce la coscienza dell’uomo.
«Io
però non credo che questa sia la strada giusta» commenta Strata. «Imitare non
vuol dire riprodurre. In realtà, non abbiamo ancora scoperto il trucco. Manca
qualcosa di importante nella nostra conoscenza della mente, che ci permetta di
fare quel passo in più e di trovare un metodo scientifico per studiare la
coscienza».
Una
delle ultime frontiere in questo campo, riguarda la teoria che descrive la
coscienza come una realtà inerente la quantistica. Secondo questa teoria, la
coscienza umana (o anima) sarebbe una struttura fondamentale dell'universo che
non dipende dal cervello, ma che esiste di per sè. Con la morte celebrale, la
"coscienza quantica" si slega dal cervello per tornare alla fonte.
Embrione,
ci sei?
Strettamente
legato al tema della coscienza è quello dell’inizio della vita cosciente nel
corso dello sviluppo dell’embrione e del feto. La questione non è di poco
conto, perché questo enigma, di fatto irrisolvibile, alimenta i dibattiti
sull’aborto, sulla procreazione assistita e sulla possibilità di usare le
cellule staminali embrionali, promessa della medicina di domani, il cui
ottenimento comporta però la distruzione dell'embrione.
Secondo
la Chiesa cattolica, una persona è tale fin dal concepimento. Molti
neuroscienziati la pensano però diversamente, perché se la caratteristica
fondamentale di una persona è quella di avere una coscienza, è chiaro che una
sola cellula, o anche un mucchietto di cellule appena un pò più avanti nello
sviluppo, non hanno la complessità necessaria a dar vita a processi mentali.
«Un
embrione a uno stadio di sviluppo molto precoce presumibilmente non possiede
stati mentali» dice Piergiorgio Strata «e non c’è una linea di demarcazione
netta di quando questi appaiano nel corso dello sviluppo». La gradualità del
processo, insomma, fa sì che, almeno dal punto di vista scientifico, sia
impossibile dire esattamente quando un grumo di cellule diventa persona.
Vorrei
la macchina del tempo
E
il mistero dell'origine è destinato a restare tale anche per il processo che ha
generato la vita, circa quattro miliardi di anni fa. Per sapere davvero che
cosa è successo, infatti, ci vorrebbe una macchina del tempo che ci portasse
fino ai primordi della Terra, perché le molecole protagoniste della catena di
reazioni chimiche da cui è scaturita la vita non si sono fossilizzate.
In
laboratorio sono state riprodotte le condizioni che, con un elevato grado di
probabilità, erano presenti allora, ma come fa notare il biologo Jerry Coyne,
dell’Università di Chicago (Usa), «non sapremo mai come sono andate le cose
esattamente. Le possibilità sono moltissime e tutte implicano la presenza di
molecole che non si fossilizzano. Questo, quindi, è un altro limite
invalicabile».
venerdì 22 marzo 2013
SEI MAI STATO FREGATO? IO SI....
Un nuovo contributo da parte di Soter che, questa volta con la complicità di tal Gian Gavino, ci mette a disposizione, con la leggerezza di un sorriso seppur velato di malinconia, un' ironica ma profonda riflessione sulle fregature della vita e quelle del nostro prossimo. Le prime non possiamo far altro che accettarle e cercare di comprenderle, nel loro significato più profondo, le altre possiamo prevenirle con la conoscenza.
Mizio
Cliccando sul link sotto l'opera completa dei due compli..... pardon autori!
Se qualcuno ritenesse di voler condividere qualche sua esperienza di fregature prese, saremo ben lieti di aggiungerle a quelle già presenti nella seconda parte in corso di elaborazione e, visibile nel link sotto:
http://www.webfilehost.com/?mode=viewupload&id=5581458
mercoledì 20 marzo 2013
POTERE E MINESTRINA
...
Le chiacchiere valgono meno di zero.
Se
abbiamo la presunzione di voler far capire ai "Pazzi" che sono pazzi
… Allora i pazzi siamo noi.
La
disobbedienza sociale, ai nostri giorni, fortunatamente, non è più quella che
permetteva ai "padroni del potere"
di
etichettarci come rei, socialmente pericolosi, e talvolta perseguitarci
spudoratamente.
L'arma
della disobbedienza sociale consiste oggi nel non acquistare prodotti ritenuti
nocivi. Aggregandoci e condividendo quelle informazioni utili allo scopo.
Associazione, Organizzazione, diffusione e condivisione di notizie e strategie
di non acquisto e disobbedienza sociale dunque ... MIA MADRE MI RICORDA ANCORA
UN EPISODIO DELLA MIA INFANZIA, QUANDO A 3 ANNI MI PREPARAVA LA MINESTRINA:-
“GRAZIE MAMMA DI AVERMI PREPARATO LA PAPPA CHE NON MI PIACE, VEDRAI ORA QUANTA
NE MANGIO.........”
Ed
e li che deve finire il potere …. A far compagnia alla minestrina.
Condividere
è Gioia e Vita.
Soter
23/3 NOTTE DELLA CIVETTA A CASTEL DI DECIMA
X Notte Europea della Civetta nelle aree protette di RomaNatura
I rapaci notturni, e la civetta in particolare, hanno sempre esercitato una grande influenza sulla cultura e l'immaginario delle persone tanto da essere al centro di innumerevoli leggende e storie popolari. Appartenenti all'ordine degli Strigiformi, i rapaci notturni sono predatori che esercitano un importante funzione ecologica nell'ecosistema. Alcune specie come l'allocco e il barbagianni sono grandi cacciatori di roditori e contribuiscono al controllo delle popolazioni di topi.
Fra tutte le specie la civetta è la più comune anche se in Europa il numero di coppie è in diminuzione (ma per fortuna non Italia). Rapace di piccole dimensioni, non supera i due etti di peso diffusa dalla costa fino ai 900 metri sul livello del mare, frequenta zone agricole e boschive e anche le aree verdi urbane.
E' presente dentro la città di Roma nelle ville storiche e nelle aree verdi più estese, soprattutto in periferia. Diffusa anche nelle aree protette gestite dall'Ente RomaNatura al cui interno nidificano anche altre quattro specie di rapaci notturni: il barbagianni, l'assiolo, il gufo comune e l'allocco.
RomaNatura partecipa alla X Notte Europea della Civetta con due serate a cui siete tutti invitati a partecipare:
- Venerdi 22 Marzo 2013 Parco Regionale Urbano del Pineto ore 19.00 Via Vittorio Montiglio (accanto alla Parrocchia Gesù Divino Maestro)
Escursione serale per ascoltare i richiami dei rapaci notturni. Rientro previsto h. 21 Info: posta@romanatura.roma.it - tel. 06 35405326
da www.fotocommunity.it
Sabato 23 Marzo 2013 Riserva Naturale di Decima Malafede ore 18.30 alla Torre di Perna in via Valle di Perna 315
Programma ed informazioni per Sabato 23 marzo Storie, miti e leggende legate alla civetta e a seguire escursione serale per ascoltare i richiami dei rapaci notturni (rientro alla Torre previsto ore 21-21.30) Prenotazione obbligatoria scrivendo all'indirizzo e.mail
guardiaparco.decima@romanatura.roma.it o telefonando al numero 06 50829723. Si consiglia un abbigliamento adeguato.
Pubblicato da Amici Riserva di Decima a 07:10
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